È molto chiara la direzione nella quale ci viene chiesto di andare: la digitalizzazione e l’innovazione del Paese e, in particolar modo, della nostra Pubblica amministrazione e dei servizi ai cittadini. Un passo necessario per superare le sfide del tempo e che ci è stato espressamente richiesto dall’Unione europea se vogliamo far parte del Recovery Plan per la ripresa e lo sviluppo dei paesi membri dopo la pandemia da Covid-19. Nonostante figuri in 24esima posizione tra i 27 Stati membri dell’Ue per adozione digitale e innovazione tecnologica, l’Italia ha colto la sfida e cominciano a sorgere i primi esempi di buone pratiche digitali. Dall’esempio dell’Agenzia delle Entrate e dell’Inps, fino agli sportelli virtuali dei Comuni italiani.
Transizione digitale: cosa prevede il Pnrr
Quali sono i progetti politici italiani per innescare questo processo di trasformazione e innovazione del Paese? Il Pnrr – il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – ha inserito proprio “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura” nella sua Missione 1. In buona sostanza, l’obiettivo è la modernizzazione digitale del Paese e della sua Pubblica Amministrazione, oltre che lo sviluppo di servizi pubblici digitali per i cittadini. L’Ue è stata chiara: almeno il 20% della spesa deve essere destinata a questo. Il piano del Governo Draghi è di investire 49,2 miliardi (di cui 40,7 finanziati dal Dispositivo europeo per la Ripresa e la Resilienza e 8,5 presi dal Fondo complementare) per portare l’Italia ad essere uno dei primi Paesi Ue in materia di digitalizzazione.
Le prime tracce di digitalizzazione
Innovazione vuol dire migliorare la connettività, adottare tecnologie digitali, migliorare le competenze, investire costantemente in ricerca, sviluppo e innovazione. Ma soprattutto innovare la Pa vuol dire avere finalmente una “cittadinanza digitale”, che si può ottenere non solo rafforzando i servizi digitali al cittadino, ma anche istruendo quest’ultimo all’utilizzo delle piattaforme digitali.
Abbiamo visto finora l’App Io, che mira a diventare il punto di accesso unico per i servizi digitali della Pubblica Amministrazione; abbiamo visto i pagamenti attraverso PagoPa, o i servizi di identità digitale come lo Spid o la Cie, o ancora l’iniziativa del Cashback, che riconosceva un vantaggio economico a chi registrasse il proprio Iban sull’App Io e tracciasse i propri pagamenti.
Non ultima la grande rivoluzione dei referendum digitali, che ha completamente cambiato il modo di fare politica. Ora, infatti, utilizzando lo Spid (che certifica la nostra identità digitale) è possibile apporre la propria firma digitale, senza bisogno della presenza. Ciò rende estremamente più semplice e veloce la possibilità di dare il proprio sostegno alle iniziative referendarie. E, per questo, la novità sta facendo molto discutere. Questa nuova frontiera della partecipazione democratica nasce da un emendamento al decreto Sostenibilità approvato lo scorso 20 luglio.
Il vaso di pandora scoperchiato dall’emergenza sanitaria
Nonostante la presenza di primi segnali di innovazione, l’Italia è ancora molto indietro in termini di digitalizzazione e lo scoppio della pandemia non ha fatto altro che renderlo ancor più chiaro. E non solo a causa di alcuni gravi intoppi, come il blackout dello scorso anno al sito dell’Inps che doveva erogare i sussidi o come il recente caso dell’attacco hacker ai server della Regione Lazio che ha messo a rischio i dati sensibili dell’utenza.
Quando, lo scorso anno, la diffusione del virus impediva di circolare liberamente per recarsi a lavoro, fu necessario rivedere le modalità di lavoro e ci fu un’espansione del ricorso allo smart working. Nella Pubblica amministrazione fu proprio la legge a stabilire che il lavoro da remoto dovesse sostituire quello in presenza, con il Dl Cura Italia. E si passò dal 2,4% di lavoratori pubblici che almeno una volta alla settimana svolgevano il proprio lavoro da casa al 33% in appena 3 mesi dall’inizio dell’emergenza.
Quella decisione portò alla luce le innumerevoli carenze della Pa. La maggior parte dei lavoratori svolgeva le attività con i propri strumenti informatici (pc, tablet, modem, linea telefonica e connessione internet) e chi non ne aveva era impossibilitato a farlo. Il personale, soprattutto quello meno giovane ed istruito, non possedeva adeguate competenze digitali. Si rese così necessario un investimento da parte di moltissime amministrazioni pubbliche, ma solo per acquistare le dotazioni informatiche, senza una effettiva digitalizzazione dei processi e un investimento sulle competenze dei lavoratori, cose che avrebbero richiesto un intervento molto più strutturale.
La scarsa diffusione dello smart working in Italia va di pari passo con il basso livello di digitalizzazione dei servizi pubblici, come confermano i dati della Commissione Europea. Una pubblica amministrazione in grado di garantire ai suoi dipendenti una modalità di lavoro da remoto è anche in grado di fornire servizi digitali ai cittadini. Ma per farlo non occorrono solo le strumentazioni tecnologiche adatte, ma anche la capacità di istruire i proprio cittadini ad utilizzare tali piattaforme. E il Pnrr può essere la nostra occasione.
Siamo pronti al cambiamento?
Tra meccanismi ancora molto farraginosi e prime tracce di innovazione che lasciano ben sperare, una cosa è certa: i cittadini hanno dimostrato di essere aperti a nuove forme – anche quando complesse – di dialogo con la Pubblica Amministrazione. La palla, quindi, passa ai vertici politici. La vera sfida sarà quella di stabilire con quali modalità si vuole affrontare questa nuova fase, se cavalcando l’innovazione e immaginando nuovi servizi digitali, semplici, veloci, pronti a rispondere alle esigenze dei cittadini, oppure subendo passivamente gli effetti di questa evoluzione, arrancando, rimanendo indietro, rincorrendo il cambiamento senza mai raggiungerlo veramente, come altre volte è accaduto in passato nella storia della Pubblica amministrazione.