Chi ci rappresenta sul luogo di lavoro? In che modo ci facciamo rappresentare? Il voto per scegliere i propri rappresentanti sembra oggi lo strumento naturale, ma è in realtà una conquista recente. Dai Consigli di fabbrica degli anni ’70 siamo arrivati sino alle nuove rappresentanze sindacali unitarie, che hanno portato al voto, dal novembre 1998, milioni di dipendenti pubblici, in una delle più grandi consultazioni democratiche del nostro paese. Ne abbiamo parlato con Domenico Carrieri, professore di Sociologia economica e del lavoro all’Università La Sapienza di Roma.
Quando e come nascono le Rsu nel pubblico impiego?
“Nel settore pubblico rappresentanze di tipo elettivo non sono mai state contemplate prima della definizione del modello RSU, un modello di cui le organizzazioni sindacali avevano discusso già nei primi anni ’90, usando sigle diverse. La novità di fondo di questo meccanismo di rappresentanza è che è valido e alla portata di tutti i lavoratori. Nei comparti privati c’è un accordo nel 1994 tra Confindustria e Cgil Cisl e Uil, che consente di passare alla definizione elettiva della Rsu e di materializzare la presenza dei delegati nei luoghi di lavoro. Nel settore pubblico ci vuole più tempo; avviene grazie ad un decreto legislativo del 1997 ma – attenzione! – con un esito più importante perché si procede in modo sistematico e capillare alla costituzione di questi organismi in tutte le amministrazioni”.
Per quale ragione, secondo lei, alle elezioni politiche la partecipazione ha tassi molto bassi e invece sul posto di lavoro si raggiunge una grande partecipazione?
“Io questo aspetto l’ho notato. La presenza delle rappresentanze elettive non c’è in tutti i luoghi di lavoro; questo diritto democratico dei lavoratori ad avere dei rappresentanti che tutelino gli interessi all’interno delle aziende non è generalizzato, è incompleto. I lavoratori, attraverso l’esperienza sul campo, si sono resi conto che queste Rsu sono uno strumento utile. Poi c’è un altro fattore che spiega una tale partecipazione: la mobilitazione capillare delle organizzazioni sindacali, che fanno vere e proprie campagne elettorali che rendono visibile l’utilità della partecipazione e la rafforzano. Credo che questo sia uno degli aspetti che spieghi le ragioni del successo delle Rsu. Meccanismi altrettanto virtuosi, incentivanti i cittadini, non li troviamo nella sfera politica, e questo spiega il calo significativo, mortificante e preoccupante alle politiche”.
Qual è il campo di competenza della Rsu e il suo livello di autonomia rispetto al sindacato?
“Parliamo anche di qualcosa che può essere criticata. Uno dei difetti del modo in cui i sindacati si sono tradizionalmente posti nei confronti delle Rsu è di grande impegno elettorale e di un minore impegno successivo. In qualche misura è comprensibile, perché c’è sempre la competizione elettorale, poi bisogna essere capaci di gestire la routine, l’ordinaria amministrazione. Sarebbe importante investire di più – in attenzione, formazione e cura organizzativa – sui delegati; perché svolgono un mestiere delicato e complesso, non si limitano a canalizzare il malessere, le domande e le aspettative dei lavoratori, no, svolgono anche una importante funzione di contrattazione, e quindi il delegato deve avere la capacità di possedere strumenti negoziali nei confronti delle controparti. Detto questo, le Rsu hanno certamente una loro autonomia, perché stanno sul campo, conoscono i problemi specifici di quell’ente, di quell’ufficio, di quella amministrazione, ma è giusto inserire la loro azione in una cornice più ampia, che è quella che assicurano le organizzazioni, che hanno obiettivi di carattere più vasto e più generale. La linea di tendenza, comunque, è quella di dare sempre più autonomia decisionale alle Rsu”.
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