Workaholism, una patologia a tutti gli effetti, una dipendenza dal lavoro che investe soprattutto i lavoratori di oggi, che impedisce di staccare la spina e che ci porta a pensare che il sacrificio della propria vita privata sia una tappa obbligata di un vero “gran lavoratore”. Come questo fenomeno si è intrecciato con la pandemia, con la chiusura di molte attività, con il ricorso allo smart working? La pandemia ha attenuato il workaholism permettendo di dedicarsi maggiormente alla vita privata o al contrario lo ha accentuato? Lo abbiamo chiesto a Maria Teresa Coppola, Psicologa dirigente e Responsabile UO “Psicologia del lavoro” della Asl di Taranto.
Dott.ssa Coppola, come la pandemia ha cambiato i giovani lavoratori?
La pandemia, come sappiamo, ha reso ancor più precaria la situazione lavorativa, con il risultato che molti giovani lavoratori si sono sentiti di dover massimizzare il proprio apporto lavorativo. Complice anche la spinta sul lavoro da remoto che ha permesso di rimanere sempre connessi e produttivi, ciò ha prodotto in alcuni di loro lo sviluppo di una condizione simile al workaholism, vale a dire una divisione sempre più sfumata tra tempo privato e tempo lavorativo, tra ambito personale e ambito professionale, fino, in taluni casi, a scomparire del tutto. Non si può trascurare l’analisi di questo vissuto.
E per quanto riguarda i giovani? Studenti e neo-diplomati vivono una condizione migliore?
Decisamente no. Gli effetti della pandemia sul mondo dei giovani sono stati devastanti. Se gli anziani hanno pagato in termini di vite umane, ai giovani non è stato fatto alcuno sconto in termini di perdita di apprendimento, socialità e aspettative per il futuro. Lo spazio in cui vivere si è ridotto alla casa, l’isolamento sociale, il ritiro nel mondo virtuale, la sospensione degli stimoli ad investire nel futuro, ritenuto al di fuori del proprio controllo. A farne le spese saranno soprattutto i più giovani che dovranno inserirsi nel mondo del lavoro, dominato dall’incertezza. L’ingresso nel mondo del lavoro è un momento di transizione decisivo per la costruzione dell’identità di ciascun essere umano, per la definizione del Sé.
E allora cosa fare?
Non esistono soluzioni semplici o univoche. Sicuramente sono auspicabili investimenti sull’occupazione giovanile, per ottimizzare il contributo che proprio la generazione dei millenials può dare alla ripresa post-covid. Occorre ripensare il sistema dei percorsi formativi (scolastici e non) per renderli realmente qualificanti, più vicini alle nuove esigenze del mercato del lavoro, avendo cura di inserire misure psicologiche di orientamento per supportare adeguatamente la creatività dei giovani. Occorre, poi, che le aziende si occupino di più del benessere psicologico dei propri dipendenti, per coniugare la produttività con la realizzazione di sé e del proprio potenziale.
di Martina Bortolotti