Un fenomeno poco noto ma molto più diffuso di quanto si possa immaginare, di cui solo in tempi molto recenti si comincia a sentir parlare, difficile da riconoscere e da dimostrare: è la violenza economica, un atteggiamento di controllo e limitazione dell’altro – di solito dell’uomo nei confronti della donna – facendo leva sulla gestione del denaro e una posizione di superiorità economica.
Una forma insidiosa, subdola, di violenza che si può realizzare in diversi modi: il più comune è quello che si verifica quando l’uomo limita l’indipendenza e l’individualità della donna impedendole di trovare un impiego, di avere e gestire una propria entrata finanziaria. È spesso il marito, il compagno, il fidanzato a gestire in esclusiva le finanze altrui o comuni, e a stabilire quanto denaro concedere alla partner. A volte non concedendolo affatto. Ci sono poi casi di violenza economica che scaturiscono da situazioni in cui, pur avendo la donna un impiego e una retribuzione – spesso anche superiore all’uomo -, si ritrova vittima di raggiri e con debiti da pagare. In tutti questi casi, il filo comune che li tiene insieme è la distruzione dell’indipendenza economica – che spesso si accompagna anche a limitazioni della libertà individuale – della vittima che, da quel momento, comincia suo malgrado un rapporto di vera e propria dipendenza dall’altro.
Qualche dato
A causa di un retaggio culturale, duro a morire, che ha visto l’uomo assumere il ruolo di lavoratore e gestore delle finanze familiari, il fenomeno della violenza economica è difficile da monitorare e, ancor prima, da riconoscere, anche da parte della stessa vittima. Spesso la donna non si accorge di subirlo, lo giustifica e, ad occhi esterni, non suscita la giusta indignazione. Non esistono quindi statistiche ufficiali sulla portata del fenomeno, ciò nonostante è possibile stimarne la diffusione: secondo i dati del Cnel del 2019, 3 donne su 10 non hanno un conto corrente e non gestiscono in autonomia i propri guadagni. L’Associazione Dire, invece, fa sapere che il 34% delle donne che si rivolgono alle loro strutture denunciando casi di violenza, fa riferimento a circostanze dai risvolti economici.
Il quadro normativo
Il legislatore ha fatto riferimento alla “violenza economica” per la prima volta nel 2013, citandola tra le condotte di violenza domestica. In un quadro normativo internazionale, invece, il primo strumento a disposizione è la Convenzione di Istanbul che all’art. 3 definisce la violenza contro le donne come “una forma di discriminazione, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica”.
Ad oggi, in Italia, ancora non esiste una normativa specifica. Tuttavia, i casi di violenza economica possono ricevere tutela sia da un punto di vista civilistico che penalistico. Nel primo caso, applicando gli ordini di protezione contro gli abusi di familiari (art. 342 bis e art.342 ter.). Nel secondo, facendo rientrare il reato in varie fattispecie: maltrattamenti in famiglia (art. 572), violenza privata (art. 610), riduzione e mantenimento in schiavitù (art. 600), violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570).
Misure di sostegno e prevenzione
Le situazioni di violenza economica possono sfociare in grandi conflitti, a volte anche fisici, e spingere la donna a volere la separazione, spesso con il problema ulteriore dei figli a carico. In molti casi però le donne sono, di fatto, impossibilitate a lasciare l’abitazione e a prendersi cura di sé e dei propri figli non potendo contare su risorse economiche sufficienti. Nel novembre 2021 è stato introdotto il Reddito di Libertà, una nuova misura economica che prevede l’erogazione, da parte dell’Inps, di 400 euro al mese per un anno, un aiuto economico destinato alle donne vittime di violenza, seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni e dai servizi sociali, per contribuire a sostenerne l’autonomia.
Ad oggi, si dibatte su quali possano essere gli strumenti più adatti a contrastare il fenomeno. C’è chi ritiene che il Reddito di libertà debba considerarsi un primo importante passo per sostenere le vittime, chi crede che la soluzione non sia nella sussistenza ma che, invece, andrebbe cercata in un profondo intervento culturale. Ancora: chi invoca una normativa ad hoc e chi al contrario ritiene sufficienti ed adeguate le norme vigenti. Quel che è certo è che la modernità ha fatto emergere una questione che non si può più ignorare e che sarà sempre più necessario monitorare il fenomeno e costruire – coinvolgendo tutti gli attori sociali – risposte adeguate per prevenirlo e contrastarlo.
di Martina Bortolotti