“Tecnologia e intelligenza artificiale, la vera sfida è non lasciare nessuno indietro”

“Tecnologia e intelligenza artificiale, la vera sfida è non lasciare nessuno indietro”

Parla Roberto Reale, manager dell’innovazione con esperienza in trasformazione digitale di settori strategici in ambito nazionale e UE, che ha curato progetti di e-government presso la Commissione europea, la Presidenza del Consiglio dei ministri, l’Agenzia per l’Italia digitale, la Camera dei deputati, il Ministero degli Affari Esteri e organizzazioni private. A lui abbiamo chiesto di tracciarci una visione del futuro sui grandi temi dell’innovazione tecnologica e dell’Ia, e le loro ricadute sulla società, l’occupazione e il lavoro. Il manager dà anche un suggerimento ai giovani: “mi sento di consigliare una carriera al servizio della pubblica amministrazione”.

Negli ultimi tempi si “grida” il rischio che l’intelligenza artificiale rimpiazzi molte delle professioni attuali. Quanto c’è di vero e cosa può invece essere derubricato come allarmismo?

Come ho raccontato nel libro Dimensioni dello smart working (FrancoAngeli, 2022), l’“ansia da tecnologia” è sorprendentemente antica e può prendere essenzialmente tre forme. In primo luogo, una delle preoccupazioni più comuni è che il progresso tecnologico provocherà una sostituzione del lavoro con le macchine, il che a sua volta potrebbe portare alla disoccupazione e a un ulteriore aumento della disuguaglianza nel breve periodo, e questo anche nell’ipotesi che gli effetti a lungo termine siano benefici. In secondo luogo, esiste l’ansia per le implicazioni morali del processo tecnologico sul benessere umano, in senso lato: nel caso della Rivoluzione industriale, per esempio, per gli effetti alienanti del lavoro alla catena di montaggio, così come oggi per le implicazioni etiche dell’impiego degli algoritmi. In terzo luogo, c’è chi ritiene che l’apice della crescita economica e tecnologica sia ormai alle spalle e che bisogna piuttosto preoccuparsi di un progresso troppo lento, non di uno troppo veloce. Questo timore è forse più latente ma non assente: pensiamo per esempio al paventato rischio di un nuovo “inverno dell’intelligenza artificiale”. Quel che è certo è che le tecnologie hanno sempre un impatto trasformativo sul mercato del lavoro: creano nuove professioni, ne distruggono altre, ma soprattutto cambiano, spesso irreversibilmente, il modo di lavorare, e quindi le competenze richieste ai lavoratori. In ogni caso, come disse Roy Amara, tendiamo a sopravvalutare l’effetto delle tecnologie nel breve periodo e a sottovalutarne l’effetto nel lungo periodo.

Come cambia, dunque, il lavoro con l’intelligenza artificiale?

Se è quasi certo che l’intelligenza artificiale non altererà il bilancio netto dell’occupazione, è anche vero che la transizione potrebbe colpire quei lavoratori che non sapranno far propri i nuovi strumenti. È comunque importante sottolineare che le macchine, da sempre, tendono a sostituire i compiti ripetitivi e prevedibili (o addirittura alienanti), piuttosto che intere professioni. Di sicuro c’è che dovremo imparare a progettare il nostro lavoro in modo che ne sia protagonista l’umano insieme alla macchina, un umano più libero di concentrarsi su compiti più complessi e creativi, e non l’umano contro la macchina. Emergono nuovi profili etici e di governance, ma anche nuove responsabilità: pensiamo ad esempio ai sistemi di intelligenza artificiale applicati alla sanità o alla giustizia.

Quali professioni saranno maggiormente investite dall’intelligenza artificiale e quali meno?

A questa domanda è difficile rispondere, nonostante i report delle società di consulenza si sprechino. Ci sono tantissime cose che l’intelligenza artificiale oggi può fare, dalle traduzioni al giornalismo, dall’analisi statistica alla consulenza legale, dallo sviluppo software alla dimostrazione di teoremi. Anche nelle professioni che richiedono un elevato livello di creatività, intuizione e abilità interpersonali, come l’arte, la psicologia, la medicina o l’insegnamento, l’intelligenza artificiale può trovare il suo posto. Attenzione però: in tutti questi ambiti, gli algoritmi funzionano veramente bene solo se accompagnano il lavoro umano, non se lo sostituiscono. Anche l’ipotesi che in un futuro prossimo le macchine possano assumersi la maggior parte delle funzioni creative finora appannaggio esclusivo dell’essere umano, lasciando a quest’ultimo una mera funzione di supervisione, resta per ora solo un’ipotesi di scuola.

Se un giovane studente volesse puntare su una professione del futuro, quale gli consiglierebbe?

Andrei controcorrente: mi sento di consigliare una carriera al servizio della pubblica amministrazione. Il settore pubblico sta cambiando tantissimo negli ultimi anni, a livello europeo, nazionale e locale, sia in termini organizzativi che tecnologici. L’attenzione alle politiche data-driven, all’innovation procurement, alla transizione verde, alle competenze digitali avanzate, alla sicurezza cibernetica, tanto per fare alcuni esempi, richiedono professionisti in grado di affiancare a una preparazione tecnico-giuridica approfondita la capacità di lavorare in gruppi multidisciplinari su progetti governati attraverso metodologie all’avanguardia. Il burocrate chino tra faldoni, timbri e parafernali vari è una figura che appartiene a epoche ormai trascorse.

Nel prossimo futuro dovremo ripensare il nostro modo di vivere e di fare esperienza di ciò che ci circonda? Come, in definitiva, è avvenuto 20 anni fa con la diffusione degli smartphone…

Su questo non ho dubbi. Come è accaduto con l’invenzione del linguaggio, l’invenzione dell’intelligenza artificiale serve a organizzare il nostro rapporto con il mondo. Dovremo ripensare il nostro modo di vivere e di lavorare, perderemo probabilmente alcune abilità cognitive (ricordiamo il mito di Theuth nel Fedro platonico: anche la scrittura ha ridotto la nostra capacità di ricordare senza ricorrere a “segni estranei”), ma ne acquisiremo altre. Probabilmente in un futuro molto prossimo dovremo tutti diventare un po’ “bilingui”: competenti non solo nel linguaggio umano, ma anche nel linguaggio delle macchine. E come per qualsiasi lingua la chiave per imparare è l’immersione, la sperimentazione, la curiosità.

Come contrastare il rischio che l’evoluzione della tecnologia possa aumentare il divario tra le nazioni e gli individui?

La vera sfida è non lasciare nessuno indietro. Questo implica, tra le altre cose, l’accesso universale a nuovi modi di formazione, anzi di alfabetizzazione di base; ma implica anche la capacità e prima ancora la volontà da parte della politica di farsi carico senza tentennamenti dell’onere di governare la transizione. Per quanto riguarda il rischio che l’evoluzione tecnologica possa aumentare il divario tra le nazioni, non è già più un rischio ma una certezza. Per noi europei, come ho scritto su forumpa.it, le iniziative normative, comunque fondamentali, devono essere necessariamente accompagnate da un impegno finanziario, strategico e operativo che faccia perno sulle applicazioni dell’intelligenza artificiale per rafforzare il mercato unico. La regolamentazione non deve agire solamente come un freno, ma deve svolgere un ruolo di stimolo e guida all’innovazione responsabile e sostenibile: il rischio, altrimenti, è di ritrovarsi a esportare norme mentre i nostri competitor globali esportano idee e tecnologie.

In definitiva, c’è il rischio che l’intelligenza artificiale riesca a sovrastare la mente umana?

Il rischio che l’intelligenza artificiale possa superare la capacità umana in tutti gli aspetti cognitivi è un argomento di discussione ormai da decenni. Periodicamente questa prospettiva millenaristica, che poi fa leva su antichissime paure, torna alla ribalta, sviluppando un’attesa quasi messianica della “singolarità tecnologica” o della “superintelligenza”. Più di recente, in termini ambiguamente catastrofisti, ne hanno paventato l’avvento le stesse aziende coinvolte nello sviluppo di quegli stessi modelli che la bozza di Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale definisce fondazionali. Ma in realtà lo sviluppo dell’intelligenza artificiale va in direzione opposta. Il grande successo delle macchine cosiddette intelligenti sta nella loro capacità di essere fondamentalmente stupide, cioè nella capacità di dispiegare un’enorme capacità computazionale a costo relativamente contenuto per simulare comportamenti cognitivi propri dell’umano. In ultima analisi, un modello come quelli su cui si basa Chat-GPT non fa che codificare in colossali sistemi di equazioni algebriche la “conoscenza” estratta da uno o più insiemi di dati, e successivamente applicare questa conoscenza per imitare una conversazione umana. Come scrive Luciano Floridi, «il problema dell’intelligenza artificiale è quello di fare sì che una macchina agisca con modalità che sarebbero definite intelligenti se un essere umano si comportasse allo stesso modo». Tralasciando le cosiddette abilità emergenti (questione che riguarda essenzialmente la valutazione dei sistemi di intelligenza artificiale), l’avvento di un’ipotetica intelligenza artificiale generale, cioè di una macchina intelligente cognitivamente indistinguibile dall’essere umano, inclusa la capacità di essere senziente e di averne consapevolezza, di esercitare l’intuizione e la creatività, di provare emozioni e sentimenti, continua ad essere pura fantascienza. Il vero rischio non è tanto la nascita di una superintelligenza artificiale e maligna, quanto l’utilizzo degli strumenti già disponibili ai fini della compressione dei diritti fondamentali (pensiamo al riconoscimento biometrico o alla polizia predittiva), della manipolazione degli individui o della loro discriminazione su base comportamentale, socioeconomica o etnica (social scoring). In questo senso il veto posto dalla bozza di Regolamento europeo rispetto ai sistemi ad altissimo rischio rappresenta una salvaguardia fondamentale da difendere a tutti i costi.

 

di Martina Bortolotti