Intervista ad Andrea Lassandari, professore di Diritto del Lavoro all’Università di Bologna, sulla legge 300: “C’è una esigenza di tornare indietro rispetto al Jobs Act, la Carta dei Diritti può aiutare”
“Lo Statuto dei lavoratori ha rappresentato l’apice della protezione assicurata ai lavoratori, riequilibrando i rapporti di forza. I cambiamenti strutturali e materiali intercorsi in questi anni non hanno inciso sulla sua tenuta, ad influire sono state precise scelte politiche”. A offrire un bilancio di mezzo secolo e più di Statuto, e al tempo stesso una descrizione di cosa ha rappresentato la legge 300 nel nostro Paese, è il professore di Diritto del Lavoro all’Università di Bologna, Andrea Lassandari.
Professore riusciamo a tenere insieme un bilancio e una descrizione di questa legge?
A quei tempi si diceva dello Statuto che fosse la Costituzione nei luoghi di lavoro. Le limitazioni in termini di diritti costituzionali per chi in quei luoghi entrava erano infatti enormi ed è qui che lo Statuto è intervenuto. Lo ha fatto attraverso due operazioni: la prima, riequilibrando i rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro, limitando i poteri di questi ultimi, dal controllo alle sanzioni, dalla mansioni al licenziamento, con il noto articolo 18. La seconda è rendendo concretamente operative e applicabili le norme previste attraverso la presenza del sindacato dei lavoratori. Lo Statuto, la sua idea di fondo, ha avuto per questo un ruolo decisivo nel nostro paese e ha determinato una evoluzione differente della nostra stessa democrazia. Rappresenta l’apice raggiunto in Italia della protezione assicurata ai lavoratori, nel bilanciamento tra ragioni delle imprese e dei lavoratori, e senza che ne derivassero problemi relativi alla capacità produttiva delle imprese.
Questi cinquant’anni trascorsi come hanno influito sullo Statuto?
I cambiamenti intervenuti nella struttura produttiva in questi anni, così come nel modo di lavorare, hanno fatto emergere i limiti di alcune delle norme previste dallo Statuto. Penso, ad esempio, a quelle relative alle limitazioni del controllo del datore sul lavoratore, rischiando di divenire obsolete in relazione agli strumenti, anche tecnologici, evoluti in maniera importante. Le tecnologie hanno permesso ai fatti di sopravanzare le norme. Sul versante sindacale poi c’è stato un problema molto grande di verifica in concreto della rappresentatività dei sindacati che nel settore privato, a differenza di quello che è accaduto nel pubblico, non è stato e non è tutt’ora risolto. Dei problemi di adattamento sono emersi ma nell’assetto centrale lo Statuto non è stato completamente spiazzato, ha tenuto finché l’ordinamento non è stato modificato alla luce di precise scelte di indirizzo politico. Per fare un esempio: la norma simbolo, l’articolo 18, quello relativo al diritto alla reintegrazione per il lavoratore ingiustamente licenziato, ha rappresentato una norma cardine, consentendo all’intero provvedimento di avere un senso, di svolgere il ruolo per cui era sorto. Modificando l’articolo 18, incidendo sulla tutela dei licenziamenti, tutto il resto rischia un po’ di sgretolarsi.
Lei ha collaborato anche alla scrittura della Carta dei Diritti della Cgil, si può ripartire da lì?
La Carta dei Diritti è il tentativo di tenere fermo lo Statuto e adeguare allo stesso tempo le parti che, come abbiamo detto, sono diventate obsolete. Prova a fornire una risposta al tema che c’era, e c’è tutt’ora, della distribuzione delle tutele, che va ben oltre il lavoro subordinato, così come affronta la questione relativa all’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione. La Carta dei diritti rappresenta un’idea completamente diversa di società e di regolamentazione del lavoro: c’è una esigenza di tornare indietro rispetto al Jobs Act, dove si è toccato il punto più basso in termini di tutele, nonché di elaborazione concettuale che c’è dietro, davvero molto povera. L’idea di lasciar fare le imprese così da generalizzare il benessere è tipicamente liberale e ha mostrato tutti i propri limiti. La Carta può essere un aiuto per andare in un’altra direzione. Certo lo scenario politico non è promettente ma può rappresentare un valido supporto normativo.