“Settimana corta”: in molti Paesi è già realtà e l’Italia rincorre

Lavorare meno a parità di retribuzione è possibile?: è la domanda che si sono posti molti Paesi europei nei quali è partita la sperimentazione della settimana lavorativa “corta” su larga scala. In altri, invece, soprattutto nel Nord Europa, tutto questo è già realtà. L’Italia sinora è rimasta a guardare, ma il tema ora potrebbe tornare di tendenza.

Già nella prima metà del ‘900, economisti come Keynes prevedevano che lo sviluppo delle tecnologie avrebbe garantito molto più tempo libero a tutti i lavoratori. Non è andata esattamente così: nonostante un progresso tecnologico inimmaginabile, i ritmi di lavoro continuano ad essere alti. Ma negli ultimi anni qualcosa sta cambiando. Nella scala dei valori delle persone l’equilibrio vita-lavoro – specie dopo il complesso periodo pandemico – è oramai diventato una priorità irrinunciabile.

Gli esperimenti in giro per il mondo

Uno dei primi Paesi a prendere l’iniziativa e tentare di ridurre da cinque a quattro le giornate lavorative settimanali è stato l’Islanda. Il test è stato effettuato tra il 2015 ed il 2019 riducendo l’orario lavorativo da 40 a 36/35 ore. I risultati sono stati molto buoni, con le imprese che hanno registrato una maggiore produttività e i dipendenti che hanno confermato un miglioramento della qualità della vita. L’86% dell’intera popolazione attiva, attualmente, lavora 4 giorni o ha il diritto di negoziare questo aspetto.

La Spagna ha avviato un test triennale, nell’autunno del 2021, con l’obiettivo di ridurre a 32 ore su quattro giorni la settimana lavorativa. Ora l’obiettivo del governo in carica, guidato da Pedro Sanchez, è quello di dare seguito al test e normalizzare la nuova modalità. Il Belgio, invece, nel 2022 ha introdotto la “settimana corta”, ma senza tagliare le ore: l’idea è concentrarle in quattro giorni, previo accordo tra datore di lavoro e dipendente, con un periodo di prova di sei mesi.

I danesi preferiscono la settimana lavorativa spalmata su 5 giorni per 33 ore settimanali, anche se è alto il numero di quanti scelgono liberamente di optare per i 4 giorni di lavoro. In più, il governo scoraggia le aziende dal richiedere straordinari ai dipendenti per garantire la “work-life balance”. A questi si aggiungono Portogallo, Paesi Bassi, Svezia, ma anche Nuova Zelanda, Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti. Le modalità differiscono leggermente da Paese a Paese ma la riduzione dell’orario lavorativo è una realtà più diffusa di quanto si possa pensare.

L’ultima ad accodarsi, da inizio febbraio, è stata la Germania. Qui è stata avviata una sperimentazione di sei mesi sulla settimana lavorativa di quattro giorni che consentirà ai dipendenti di 45 aziende in tutto il Paese di lavorare un giorno in meno alla settimana a parità di retribuzione. La speranza – incentivata dagli altri esperimenti europei – è che in questo modo si riesca a contrastare una cronica carenza di manodopera e il rallentamento della produttività.

I benefici della “settimana corta”

I risultati di vari studi e delle varie sperimentazioni in giro per il mondo convergono tutte verso lo stesso esito: lavorare meno migliora la salute psico-fisica dei lavoratori e non reca danni alla produttività delle aziende che applicano la settimana corta. Un giorno libero in più si traduce in una riduzione della pressione psicologica con ricadute positive sulla qualità del sonno e del metabolismo. Il maggior tempo a disposizione permette anche di coniugare meglio le esigenze lavorative con quelle della vita privata, giovando alla serenità delle relazioni familiari ed affettivi.

Laddove è stato introdotto, questo modello ha determinato una diminuzione dello stress lavorativo e delle assenze per malattia. Ma non solo. Secondo alcuni osservatori sociali la settimana corta è un modello progressista in quanto apporterebbe benefici in relazione alla parità di genere. La possibilità di lavorare quattro giorni consentirebbe una suddivisione più equilibrata dei compiti domestici e delle cure parentali.

L’Italia prova a rincorrere

Quando si parla di lavoro, la “settimana corta” è in cima alla lista dei desideri degli italiani. Secondo la ricerca “La nuova relazione nel mondo del lavoro” condotta da Assirm, il 55% degli italiani è disposto a guadagnare meno pur di avere un giorno libero in più, e la percentuale sale addirittura al 62% nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni. Lo studio conferma l’esistenza di una profonda evoluzione negli ultimi anni, con un’accelerazione importante durante e dopo la pandemia. Il 63% delle persone afferma infatti di avere nuove aspettative nei confronti del lavoro, percentuale che sale al 70% nella fascia 25-34 e addirittura al 77% fra i neo-lavoratori (18-24).

La prima azienda a cavalcare questa rivoluzione in Italia è stata Intesa Sanpaolo quando, nel gennaio del 2023, propose su base volontaria un nuovo modello di organizzazione del lavoro con più smart working e la possibilità di lavorare quattro giorni a settimana anziché cinque, aumentando a nove le ore giornaliere. Un esempio che, con modalità simili, hanno poi seguito altre aziende come Luxottica, Sace e Lamborghini.

Ora l’Italia prova a rincorrere ed emulare gli altri Paesi. Nei giorni scorsi è approdata in Commissione Lavoro della Camera una proposta di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro da 40 a 32 ore, a parità di retribuzione. Oltre a tutte le ricadute positive sulla sfera personale, a giovarne sarebbe anche l’ambiente, sia in termini di emissioni che di consumi energetici. La proposta è a prima firma del leader dei 5 Stelle, Giuseppe Conte, che ha già ottenuto l’appoggio del Partito Democratico.

Al fine di incentivare il ricorso alla riduzione dell’orario normale di lavoro a parità di retribuzione e sostenere le imprese che decidano di ricorrervi, in via sperimentale per il primo triennio di applicazione della nuova normativa, si prevede che ai datori di lavoro sia concesso l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali e assicurativi a loro carico, nel limite massimo di 8.000 euro su base annua. Lo stesso esonero verrebbe concesso in via cumulativa, rispetto ad altri e diversi benefìci, ai datori di lavoro che procedano a nuove assunzioni correlate alla riduzione dell’orario di lavoro.

Quello che abbiamo di fronte è un nuovo bivio: una strada continua verso l’immobilismo perpetrato in questi anni, l’altra porta verso il futuro e consentirebbe di riallinearci agli altri Paesi europei.

 

Di Matteo Mercuri