Salute mentale, un argomento sempre più discusso ma soprattutto “normalizzato”. Se infatti in passato era un tema trascurato, spesso persino censurato, oggi è sempre più abituale parlare di benessere psicologico e delle condizioni di disagio che ognuno di noi può ritrovarsi a vivere nell’arco della propria vita. Ma se stiamo percorrendo la giusta strada verso la sensibilizzazione al tema – dove pure c’è ancora molto da fare – come ce la caviamo con la capacità di rispondere a questi bisogni? Siamo in grado di farlo? Abbiamo provato a rispondere a questi interrogativi in occasione della Giornata mondiale della salute mentale 2023, il cui tema quest’anno è “Mental health is a universal human right” (la salute mentale è un diritto umano universale).
Curarsi, un lusso per pochi?
Quando si parla di salute mentale si tende ad affermare che oggi i servizi di sostegno psicologico siano interamente in mano ai privati e che curarsi rappresenti un lusso per pochi. È effettivamente così? Vediamolo. Oggi l’Italia dedica alla salute mentale il 3,4% della spesa sanitaria complessiva, collocandosi agli ultimi posti in Europa. Ci sono infatti diversi Paesi che riservano al tema percentuali anche molto più alte. Caso esemplare è quella della Francia, dove il 15% del fondo sanitario è dedicato proprio alla salute mentale. Ciononostante, quello della salute mentale è, nel nostro Paese, uno dei servizi sanitari pubblici più presidiati in assoluto, l’unico che ha avuto un grande sviluppo nei territori. Ogni territorio ha infatti i suoi centri. E allora perché si parla tanto di incapacità di rispondere a un bisogno? Perché i giovani lamentano di essere lasciati soli? Il problema di questi centri è che sono pensati per far fronte – attraverso una risposta farmacologica – solo alla patologia grave, conclamata, cronica. Manca completamente, invece, una risposta di primo livello per le patologie non gravi, una risposta psicologica e psicoterapeutica pubblica. Oggi un giovane che vuol fare psicoterapia pubblica, accedendo al diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione, semplicemente non può. O gli studi privati o niente.
Lo “psicologo di base”
Questa lacuna, insieme al bisogno delle persone di ricevere un supporto, è divenuta sempre più evidente in questi anni, anche a causa della pandemia, al punto che sono stati fatti dei tentativi per mettere una toppa: tra questi il bonus psicologo. Una misura – se vogliamo – necessaria per fornire una risposta immediata, ma tremendamente parziale. L’ondata di richieste, infatti, ha permesso solo a pochi “fortunati” di accedere al bonus governativo, una misura che comunque garantiva loro appena pochi incontri dopo i quali tornava ad essere necessario il supporto degli studi privati. Qualcuno ha intuito che, dunque, un problema strutturale necessitasse di una risposta altrettanto strutturale. Da qui le diverse proposte di legge per l’istituzione della figura dello “psicologo delle cure primarie”. Se, infatti, esiste il medico di base che accoglie le richieste di primo livello dei pazienti – come malanni stagionali, influenze e altri disturbi – per poi, in caso di bisogno, rinviarli ad approfondimenti specialistici, perché ciò non può avvenire per un professionista che si occupa della mente? Perché non immaginare una figura che fornisca un supporto psicologico e psicoterapeutico di base, laddove non ci sia bisogno dell’intervento dei servizi psichiatrici territoriali?
Difendere ciò che abbiamo
Come se non bastasse, dobbiamo anche stare attenti a difendere ciò che abbiamo. I servizi psichiatrici territoriali sono infatti oggi terreno di conquista del privato. Un settore tanto redditizio risulta piuttosto attrattivo. E così la caratteristica pubblica di questo servizio viene via via smantellata andando a colpire il suo cuore pulsante: il personale. Tra psichiatri, psicologi, infermieri, operatori sociosanitari, educatori, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione e sociologi, il nostro Paese dispone oggi di 25.791 professionisti, contro un fabbisogno di circa 38 mila unità. Un gap, dunque, di oltre 12 mila persone. Se poi pensiamo ai pensionamenti previsti per i prossimi anni a causa dell’elevata età media dei professionisti, va da sé che è assolutamente necessario investire in nuove assunzioni.
Ma non basta. Perché oltre alle nuove assunzioni di professionisti della salute c’è bisogno di prevenzione, formazione, strutture adeguate, campagne di informazione e della riorganizzazione del sistema di cura. Tra i punti nevralgici del sistema c’è la disomogeneità della rete di assistenza che si presenta, oggi, a macchia di leopardo, lasciando totalmente scoperte alcune aree del Paese che non hanno la possibilità di accedere al servizio. In questa direzione un’altra grande scommessa è quella della telemedicina che, nell’assistenza psicologica e psichiatrica, si ritaglia un ruolo importante. Oggi solo 1 visita su 10 viene svolta a distanza. Pur non sostituendo la relazione medico-paziente in presenza, la modalità da remoto consentirebbe di smaltire liste d’attesa e di accedere alle prestazioni anche all’utenza in situazioni di difficoltà e impedimento.
Quante risorse ci vogliono?
Ma quante risorse occorrerebbero per far funzionare i servizi che già abbiamo? Secondo il Rapporto More (Mental Health Optimizazion of Resources) si può stimare un investimento aggiuntivo pari a circa 1,9 miliardi di euro in 3 anni, oltre ai 4 miliardi già previsti. Dello stesso avviso furono i 91 direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale che lo scorso gennaio inviarono una lettera-appello alla politica affinché prendesse degli impegni concreti in questa direzione.
Una fotografia del bisogno delle persone
Intanto, il bisogno di aiuto delle persone cresce e non trova risposta. Gli ultimi anni hanno messo a dura prova la stabilità psichica delle persone di tutto il mondo. La pandemia con le sue restrizioni alla mobilità, le limitazioni alla vita sociale e relazionale, nonché i lutti e le preoccupazioni che ha generato, hanno determinato un forte impatto sulla componente psicologica ed emotiva della salute delle persone. Basti pensare che il bisogno di cura dopo l’impatto della pandemia è aumentato del 25-30%. Ad essere colpiti da disturbi psichici sono soprattutto gli anziani, le donne e i giovani under 35; questi ultimi sono quelli che hanno più risentito del clima di incertezza generato dall’emergenza sanitaria, vivendo una fase della vita dedicata a progettare il proprio futuro. Il più marcato peggioramento del benessere psicologico, però, si riscontra nei ragazzi tra i 14 e i 19 anni. Il 53,6% degli utenti che fa ricorso ai servizi territoriali è donna. Tra le patologie più diffuse tra queste ultime vi sono disturbi affettivi, nevrotici e depressivi. Più comuni tra gli uomini, invece, disturbi schizofrenici, della personalità, da abuso di sostanze e ritardo mentale. In particolare, per la depressione il tasso degli utenti di sesso femminile è quasi doppio rispetto a quello del sesso maschile (25,6 casi ogni 10.000 abitanti per gli uomini, contro i 43,5 casi delle donne).
Il ruolo del pubblico: non lasciare nessuno indietro
Questi investimenti sono necessari per garantire a chiunque ne abbia bisogno di essere seguito, assistito e curato. E per sensibilizzare la comunità sulla salute mentale e abbattere quella barriera di ignoranza che si frappone tra chi vive il disagio e il resto del mondo, isolandolo o addirittura stigmatizzandolo. Un sistema pubblico e universale ha il compito di non lasciare nessuno indietro. Troppo spesso, invece, le persone rinunciano a curarsi. Prendersi cura del proprio benessere psicologico non può e non deve essere un lusso ad appannaggio di pochi. D’altronde, lo dice l’articolo 32 della nostra Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. E allora è arrivato il momento di prendere decisioni serie e di rispondere ad un grido di aiuto sempre più urgente.
di Martina Bortolotti