Non solo muri ma una rete pubblica pronta ad accogliere chi chiede asilo

In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, raccontiamo la rete pubblica dell’accoglienza fatta di uomini e donne che ogni giorno, nonostante gli ostacoli, lavorano per garantire diritti e nuove opportunità

Chi fugge dalla propria terra e arriva in Italia in cerca di protezione non trova solo muri, decreti, ostilità. Trova anche una rete fatta di persone, di mani tese, di pratiche quotidiane. Trova un medico che lo visita, un funzionario che lo ascolta e lo indirizza, un’insegnante che gli insegna la lingua, un assistente sociale che lo accompagna nel costruire una nuova vita. In Italia, l’accoglienza ha il volto di chi lavora nei servizi pubblici: nei Comuni, negli ospedali, nelle scuole, nei centri d’accoglienza, nelle Commissioni territoriali, in una catena di pratiche e gesti che ogni giorno contribuiscono alla costruzione di diritti e umanità, con risorse al limite ma con un impegno che resiste. Lavoratrici e lavoratori pubblici spesso dimenticati nel racconto dell’accoglienza e penalizzati dalle scelte dei governi. In occasione della Giornata mondiale del rifugiato, è da loro che vogliamo partire.

Proviamo a pensarci per un momento. Chiudiamo gli occhi. E immaginiamo di fuggire dalla nostra Terra, perché potenzialmente pericolosa per noi. Immaginiamo di intraprendere un viaggio lungo, estenuante, certamente doloroso e di arrivare in un Paese dove tutto è nuovo: i volti, i luoghi, le abitudini, la lingua. E adesso proviamo a immaginare quanto ci sarebbe di conforto incontrare persone che si occupano di noi, che ci tendono la mano: medici che ci visitano per capire se stiamo bene, se siamo disidratati e se abbiamo bisogno di cure, funzionari che ci chiedono di raccontargli la nostra storia e cosa ci ha spinto a intraprendere quel viaggio per poterci dare quel diritto di asilo che ci salverà la vita, operatori legali che ci spiegano quali siano i nostri diritti e assistenti sociali che ci sostengono e ci accompagnano per riorganizzare la nostra vita, a noi che non sapremmo neanche da dove ripartire. Far parte della rete dell’accoglienza è molto più di un lavoro, è una missione di umanità. Ma  spesso i governi, più interessati ad ottenere facili consensi che a gestire di un fenomeno così delicato e complesso, scrivono decreti e creano ostacoli. Per il lavoro e per l’accoglienza.

E così c’è Elena, operatrice legale che lavorava nei centri di prima accoglienza per spiegare alle persone appena arrivate quali fossero i propri diritti e fornire loro assistenza legale, prima che alcune misure governative – in particolare il decreto Cutro – le impedissero di farlo, stabilendo che no, una persona migrante che fugge dal proprio Paese non ha bisogno di alcuna assistenza legale. Elena ancora oggi si ritaglia parte del suo tempo libero per continuare a fare ciò che ha fatto per 10 anni, ma adesso come volontaria. Perché quando hai guardato dentro gli occhi di chi, spaesato, chiede aiuto, farsi improvvisamente indietro rischia di risultare emotivamente insostenibile.

Antonio, invece, si occupa di parlare con chi arriva. Di comprenderne la storia, le ragioni del viaggio. Ha il compito di valutare se la loro esperienza gli dia diritto alla protezione internazionale. Un compito cruciale per la vita di queste persone, che stabilisce se si è dentro o fuori, stravolgendo completamente la loro esistenza, eppure completamente degradato e svilito dalle scelte politiche degli ultimi anni. Quello della richiesta d’asilo è infatti un settore precarizzato per legge da quando il Decreto Flussi ha stabilito che ad occuparsene non dovessero più essere lavoratori specializzati, formati e selezionati proprio per le competenze nell’ambito del diritto internazionale e dell’Unione Europea, bensì lavoratori precari spesso assunti tramite agenzie interinali.

Poi c’è Chiara, una medica infettivologa che ogni giorno visita circa 30 nuovi pazienti: si accerta del loro stato di salute, dell’eventuale presenza di malattie infettive trasmissibili, prescrive esami e cure dove necessario. Marina è punto di riferimento per queste persone che non hanno diritto ad accedere alle cure garantite dal nostro Servizio Sanitario Nazionale. Per comunicare con i suoi pazienti si avvale dell’aiuto di mediatori culturali pronti non solo a tradurre la lingua ma anche a fare da ponte tra due culture spesso estremamente diverse. Fa il possibile ma è difficile dare risposte immediate con un servizio ambulatoriale spesso carente, con poche strutture e soprattutto con scarsa copertura perché aperto poche ore al giorno.

Alessandra è un’insegnante di lingua italiana. Il suo compito, in principio, è quello di sottoporre ai nuovi arrivati un test di lingua per comprenderne le conoscenze di base e il livello di scolarizzazione dove presente. Fatto questo, organizza corsi di lingua divisi per livello che si svolgono 5 giorni a settimana. Il momento del corso di italiano non è per la persona migrante unicamente un momento di apprendimento, ma è anche uno dei pochi momenti di condivisione, di scambio umano con le persone che ha intorno, dove poter essere se stessi e abbassare le proprie difese, dove concedersi di essere vulnerabili. Ma, come spiega Alessandra, di questo non si campa. Fare questo lavoro vuol dire passare da un contratto precario all’altro, spesso di poche ore. Vuol dire dover necessariamente affiancare un secondo lavoro che permetta di arrivare a fine mese perché l’accoglienza non paga. “Perché resisto? Per la passione”, spiega.

Claudia, invece, è un’assistente sociale e si occupa di prendere in carico i minori che arrivano in Italia non accompagnati. Quello che intraprendono insieme è un vero e proprio percorso di crescita, spesso lungo anni, perché si prende cura di loro fino al raggiungimento dei 18 anni. Il suo è un lavoro delicatissimo perché ha tra le mani l’emotività di bambini e ragazzi vulnerabili e spesso con esperienze traumatiche vissute ancor prima del viaggio intrapreso. E non è difficile, in ogni caso, immaginare che impatto possa avere un’esperienza di minaccia e di fuga dalla propria Terra nel cuore di un bambino. Uno degli aspetti più duri – spiega Claudia – è deludere le loro aspettative. Arrivano da noi convinti che saranno salvati e potranno finalmente avere la nostra stessa possibilità di vivere dignitosamente la propria vita. Spesso lo scarto con la realtà è talmente profondo da essere devastante per loro. E poi c’è il problema dei numeri: nel suo ufficio – racconta – ci sono oltre 1.000 bambini e ragazzi presi in carico da appena 5 assistenti sociali e una psicologa.  Come si può, in condizioni così folli, dedicare la giusta attenzione al percorso di ognuno di questi ragazzi?

E come Elena, Antonio, Alessandra, Chiara e Claudia ci sono tante altre figure professionali che compongono il mosaico dell’accoglienza. Accoglienza non è solo un concetto astratto, è il risultato di una fittissima rete fatta di persone ma anche di risorse, di strumenti, di tempo, di lavoro. E soprattutto di volontà. E finché la politica preferirà considerare le migrazioni come un problema scomodo di cui liberarsi piuttosto che come un fenomeno strutturale da gestire, questa rete si terrà in piedi solo grazie all’umanità e alla professionalità di chi ha conosciuto il dolore di un rifugiato e ha deciso di non voltarsi dall’altra parte continuando, anche in condizioni critiche, a svolgere un lavoro essenziale.

 

di Martina Bortolotti