Lo storico: perché il 25 aprile non è una festa divisiva

Lo storico: perché il 25 aprile non è una festa divisiva

Tutte le risposte alle obiezioni sul 25 aprile da Paolo Mattera, storico, consulente per Rai Storia e docente di Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tre

Perché si festeggia il 25 aprile? Ha senso festeggiare la Liberazione? Sono domande che i recenti contrasti politico-culturali hanno reso nuovamente attuali. Per proporre una risposta occorre però distogliere l’attenzione dalle polemiche politiche contingenti e allargare lo sguardo verso alcune questioni di lungo periodo.

Perché si celebrano le feste nazionali? La risposta è che tutte le comunità hanno bisogno di simboli e richiami in cui riconoscersi e trovarsi unite. Per garantire la convivenza pacifica di un aggregato complesso come le moderne società di massa bisogna comporre le tante individualità e i tanti gruppi che le formano in una nuova sintesi, capace di elaborare una coscienza comune. Il modo più efficace è di trovare dei valori di riferimento, volti a offrire ai cittadini le coordinate ideali di azione e comportamento.

In Francia festeggiano perciò il 14 luglio, in omaggio ai valori di libertà della Rivoluzione Francese. Negli Stati Uniti il 4 luglio, per ricordare i principi di autodeterminazione dell’Indipendenza dall’Inghilterra. E non si tratta di riferimenti astratti, perché il senso di appartenenza a una comunità dipende dalla cognizione delle proprie radici.

Visto che tutte le nazioni celebrano le proprie feste, allora anche l’Italia ha scelto le proprie e dopo la Seconda guerra mondiale ha deciso di celebrare, oltre il 2 giugno per il referendum sulla Repubblica, anche il 25 aprile. La data è simbolica, perché quel giorno la guerra non finì completamente e continuò fino al 2 maggio. Nei mesi precedenti le regioni del Centro Nord erano state il teatro di un aspro scontro tra le forze degli alleati, che avevano ripreso l’offensiva, contro l’esercito tedesco e i nazisti, al fianco dei quali agiva l’esercito della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini. A sostegno degli alleati combattevano i Partigiani della Resistenza. Il 25 aprile la mobilitazione finale contro i nazifascisti raggiunse il culmine con la Liberazione delle città del Nord. Il richiamo, perciò, è duplice: il primo è alla partecipazione collettiva, il secondo è alla fine del nazifascismo. La data evoca perciò il momento culminante di un processo più ampio chiamato Resistenza.

Qui subentrano le numerose obiezioni. La prima è che la Resistenza coinvolse solo una minoranza. Certo, se si parla di Resistenza al singolare, riferendosi ai combattenti, allora ci si riferisce a un movimento che nel 1945 coinvolgeva circa duecentomila persone. E gli altri? Numerose ricerche storiche degli ultimi decenni hanno ampiamente mostrato che è più corretto parlare di “Resistenze”, al plurale. Gli atteggiamenti resistenti degli italiani furono molteplici: c’era chi aiutava i partigiani, c’erano i ferrovieri che rallentavano i treni per far scappare i prigionieri, c’erano i contadini che davano abiti ai soldati, e c’erano tanti altri atti concreti che esprimevano resistenza senza armi ai nazifascisti.

E allora arriva un’altra obiezione: coloro che impugnarono le armi scatenarono una guerra civile; quindi, la Liberazione non può rappresentare tutti gli italiani. In effetti è inutile nascondersi la realtà: fu una lotta che oppose italiani ad altri italiani. Ma questa base di realtà non deve celare il punto discriminante, che è un altro: su quali valori quegli italiani compirono la scelta di schieramento? Da una parte c’erano coloro che combattevano per il totalitarismo nazifascista, un’ideologia razzista e liberticida, che professava la divisione del mondo in uomini e nazioni superiori autorizzate a opprimere e reprimere gli esseri umani considerati inferiori. Dall’altra parte c’erano coloro che, spesso in modo istintivo, sceglievano di aiutare gli ebrei o di nascondere i soldati scappati dai campi di prigionia. E lo facevano in base ai valori di rispetto della vita umana e della libertà. Perciò, se pure è corretto accogliere l’appello a portare rispetto per tutti i morti di una guerra terribile, bisogna allora aggiungere che non è corretto togliere ai morti il valore delle scelte compiute da vivi. In più, coloro che presero la decisione difficile di imbracciare le armi contro i nazisti sapevano benissimo di non poter vincere la guerra da soli e di poter essere di solo supporto agli eserciti alleati. Ma scelsero ugualmente di combattere perché non volevano che la libertà arrivasse dall’alto a un popolo passivo. La rigenerazione degli italiani doveva essere opera degli italiani stessi, doveva giungere come il risultato di una iniziativa popolare, animata dalla fede in ideali e valori completamente diversi da quelli che avevano dominato nei decenni precedenti.

Ed ecco una nuova obiezione: la mobilitazione dell’antifascismo non era sinceramente democratica perché – si argomenta – nel combattere il totalitarismo di destra si richiamava al comunismo, che era uno speculare totalitarismo di sinistra. Anche in questo caso si parte da una base di verità, che però viene completamente decontestualizzata e destoricizzata, per proporre una visione della realtà alterata e contraffatta. Non c’è infatti dubbio che molte delle brigate combattenti, le Brigate Garibaldi, afferivano al Partito comunista. Ma il richiamo ideologico era chiaro al vertice, tra i dirigenti, molto meno alla base, formata da renitenti alla leva del governo nazifascista del Nord. Insomma: i combattenti per la Resistenza erano i giovani cresciuti durante il fascismo, che non avevano avuto l’opportunità di formarsi un’opinione politica in un sistema libero e aperto e avevano perciò un’idea molto orientativa di cosa fosse il comunismo nella sua realtà effettiva. In quegli anni terribili le scelte avvenivano opponendo i richiami ideali alle esperienze concrete. Da una parte c’era chi si schierava coi nazifascisti ben consapevole che essi, davanti agli occhi di tutti, deportavano, rastrellavano e uccidevano in base a un’ideologia di superiorità razziale; dall’altra c’era chi si opponeva a tutto questo richiamandosi a valori di libertà e eguaglianza. Non sono evidentemente due modalità di scelta equivalenti che si possono annullare a vicenda.

E così, dopo la guerra, quando arrivò il momento di scegliere le nuove feste nazionali volte ad alimentare negli italiani il sentimento di cittadinanza democratica, si scelse il 25 aprile. A farlo non fu un comunista, bensì il Presidente del Consiglio democristiano Alcide De Gasperi. Propose quella data per un motivo ben preciso: porre alla base dell’identità nazionale i valori che avevano animato tutti i partecipanti alle Resistenze (al plurale): i valori della libertà e del rispetto della vita umana.

 

di Paolo Mattera