Giornata mondiale per la libertà di stampa. Prevista dalla nostra Costituzione eppure non sempre applicata nei fatti. Questo perché ci sono meccanismi farraginosi che spesso si pongono tra la verità e la sua pubblicazione. Minacce di stampo criminale, querele temerarie, editori “impuri”. Qual è la strada verso il racconto della verità? Ne abbiamo parlato con Floriana Bulfon, giornalista d’inchiesta, esperta di mafia e criminalità organizzata.
Criminalità organizzata. Quali sono gli elementi che portano alla sua nascita e al suo sviluppo nei territori?
Il potere della criminalità organizzata nasce dalla negazione dei diritti che porta le persone alla ricerca di una conoscenza, di una raccomandazione. Tutte le organizzazioni criminali hanno una caratteristica in comune, che deve essere compresa per riuscire a contrastarle: la radice del loro potere è il controllo del territorio. Questo controllo lo dominano con la violenza, con la prevaricazione, ma lo dominano anche e soprattutto con la costruzione di un consenso sociale.
Si accreditano per essere i veri tutori dell’ordine, gestiscono la sicurezza, dirimono le liti, quelle per esempio che in tribunale rimangono appese per anni e anni. Lo fanno spessissimo in caso di calamità. Durante la pandemia, per esempio, in alcuni dei quartieri più difficili hanno distribuito pacchi alimentari. Spesso sono gli unici datori di lavoro, che offrono un lavoro come palo o come pusher.
Questo è il contesto su cui si innestano e si fanno forza. Questo ci fa comprendere che gli arresti di queste persone da parte dello Stato sono importanti, ma sono di fatto inutili se non crei lavoro e opportunità. Se non risani il territorio da un punto di vista culturale e sociale, a ogni boss catturato ne arriverà un altro e non si spezzerà questa catena di morte.
Come spieghi la presenza della criminalità organizzata anche in Paesi caratterizzati dal benessere e da ottime politiche sociali?
Nonostante l’apparenza di tutta una grande offerta di servizi, evidentemente le politiche sociali non hanno funzionato. Come mai? A mio avviso c’è un problema culturale molto profondo: non vengono proposti valori alternativi alla voglia di ricchezza facile. Ci sono ragazzini giovanissimi, di 12 o 14 anni, che vogliono fare soldi facili e veloci, che sognano la villa a Costa Del Sol. E chi ti consente di darti questa illusione? Le organizzazioni criminali.
Criminalità organizzata, il tema portante della tua carriera giornalistica. Cosa ti ha spinto a sceglierlo?
La scelta di fare la giornalista arriva negli anni ’90, durante l’adolescenza. Anni, fortemente segnati dalle stragi di mafia, in cui cominciava la mia consapevolezza e il mio impegno civile. Sono anche gli anni delle guerre jugoslave. Io sono friulana e ho vissuto la mia infanzia e adolescenza accanto a quel confine, abituata ad attraversare la frontiera, abituata ad avere in famiglia e tra gli amici persone di nazionalità diverse. E improvvisamente tutto questo è diventato estremamente brutale e spaventoso. Queste due componenti si sono innestate nella voglia di raccontare. Nella volontà di essere nei posti che spesso sono dimenticati e che non necessariamente sono lontani da noi, di dare voce a chi non ce l’ha e di tentare di cambiare un po’ di storture che il nostro Paese ha.
Un tempo organizzazioni mafiose e criminali facevano evidente rumore, oggi agiscono con maggiore silenzio. Questo ha portato molti a credere che il problema non sia più una priorità. Cosa puoi dirci al riguardo?
Il rischio oggi è di considerare le mafie come un male in parte superato e in parte ineluttabile.
La stagione delle bombe nella storia della criminalità organizzata è una parentesi, brutale ma limitata negli anni. Per tutto il resto del tempo le organizzazioni criminali si sono mosse nel silenzio, perché si ha meno rischio che l’opinione pubblica parli di sé, di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine o della politica. L’assenza di quella violenza stragista e omicida ha consentito alle mafie di nascondersi dietro la circolazione del denaro. È una mafia borghese, che si muove nella finanza, che studia, che manda i figli nelle migliori università, che è fatta di tanti colletti bianchi, con tanti soldi da investire, soprattutto provenienti dalla droga.
Le mafie saranno sconfitte quando noi ci comporteremo da persone libere, quando non andremo più a chiedere il favore, quando non saremo più ricattabili. E quando non saremo più indifferenti e omertosi. Quante volte ci voltiamo dall’altra parte? La mafia entra tutti i giorni nella nostra vita. Spesso facciamo finta di niente. Se non cominciamo a rifiutarci, il rischio è quello di rassegnarci alla loro presenza.
L’Italia è un Paese che non eccelle nelle classifiche per la libertà di stampa, tra minacce della criminalità, querele temerarie e “poteri forti”. Come agire per migliorare la qualità della nostra libertà di stampa?
In Italia il reato di diffamazione è l’unico in cui è l’imputato a dover dimostrare di essere innocente. Significa che devi spendere tempo e soldi per dimostrare di aver detto la verità, altrimenti rischi il carcere e di dover pagare risarcimenti milionari. Per tutti gli altri reati in Italia è l’accusa a dover dimostrare che tu sei colpevole. Le querele temerarie sono una grande piaga di questo Paese: sono quelle che ti fanno anche quando sanno di perdere ma che fanno per intimidirti. Questo perché le cause civili vanno avanti per anni, bisogna pagare gli avvocati e si rischiano risarcimenti salatissimi. Questo di fatto alimenta l’autocensura, soprattutto per un giornalista freelance, precario e senza tutela legale.
Io penso che in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo c’è ancor più bisogno di un’informazione che sia pulita da interessi di parte. Anche la stampa deve fare autocritica in questo. Poi c’è bisogno di una politica che oltre a esprimere solidarietà davanti a minacce e querele, si decida ad approvare delle norme puntuali a tutela del diritto di cronaca – penso alle norme sull’equo compenso, altrimenti è ovvio che sei ricattabile se vieni pagato 5 euro a pezzo. Chi fa querele temerarie e poi le perde deve essere costretto a pagare una quota parte della cifra che chiede. Infine, ci si dovrebbe interrogare sulla disattenzione che c’è sul nostro lavoro. In altri paesi Europei e anche negli Usa, i parlamentari portano in aula e discutono i temi denunciati dal giornalismo d’inchiesta, per arrivare a correggere quello che non funziona, a smascherare quello che è nascosto.
Che futuro vedi per il giornalismo in Italia e che consigli daresti a chi vuole intraprendere questa professione?
Per me fare giornalismo vuol dire scavare e non riassumere. Spesso nel nostro Paese si preferisce l’opinione, la polemica, il ridurre la complessità ad uno slogan facile. Sono invece convinta che esista ancora il giornalismo investigativo e che si debba continuare a farlo. Ma questo richiede un lavoro di squadra, anche con giornalisti di altri paesi che provengono da esperienze e approcci diversi. Serve studio, umiltà e uno sguardo libero dai pregiudizi.
Come vivi l’idea che per poter scrivere di alcuni argomenti si abbia bisogno di protezione?
Se in un Paese democratico si devono subire delle minacce semplicemente perché “colpevoli” di aver fatto il proprio lavoro, c’è qualcosa che non va. Poi si convive con la paura. Sarebbe folle dire che non si ha paura, ma non deve condizionarci troppo e impedirci di fare il nostro lavoro. Si supera pensando a fare bene il proprio lavoro, pensando a tutte le persone che hanno avuto il coraggio di denunciare, pensando di fare qualcosa per gli altri. Certamente c’è una paura per le persone che ci vivono accanto, per la nostra vita che subisce dei cambiamenti. Io ringrazio moltissimo le forze dell’ordine che si sono impegnate a proteggere la mia. Ma rimane comunque il fatto che evidentemente quegli articoli, quei servizi, quelle inchieste servono. Se il nostro lavoro dà fastidio, se sveliamo quegli inganni a cui vorrebbero abituarci questa è una bella forza per continuare.
di Martina Bortolotti