Quello dell’educatrice è un lavoro paziente e meticoloso che ogni giorno cerca di facilitare la vita dei ragazzi con disabilità nelle loro attività quotidiane. Un lavoro allo stesso tempo silente, spesso invisibile e di cui non viene riconosciuta la professionalità e la rilevanza. Parlarne, allora, e dare voce a chi ricopre questo ruolo con passione e dedizione è la minima cosa che si può fare. Lo facciamo attraverso le parole di Michela, educatrice da circa trent’anni presso un Istituto Comprensivo di Cagliari.
Che cosa caratterizza l’attività delle educatrici e degli educatori?
Ci occupiamo di bambini e bambine con problematiche particolari e diverse tra loro: situazioni che a volte ci mettono a dura prova ma che ci appassionano e ci scaldano il cuore. In tanti pensano che la nostra attività sia concentrata su di loro e sulle loro disabilità. È vero in parte, nel senso che quello che facciamo va molto oltre. Curiamo infatti anche le relazioni interpersonali coinvolgendo gli alunni e i docenti, spesso a loro insaputa. Tutti hanno bisogno di essere educati alla disabilità e a relazionarsi con essa. Questo richiede particolare sensibilità ed empatia da parte nostra: il pugno duro non è mai la soluzione e testimonia inesperienza da parte dell’educatrice.
Quale è il principale obiettivo che vi ponete con i bambini e le bambine che seguite?
Dopo l’apprendimento e alcuni obiettivi mirati sul comportamento, il nostro intervento è sicuramente all’insegna dell’inclusione. Lavoriamo per il minore, sul minore e con il gruppo classe: questa è una delle cose più importanti che si deve sapere. Come dicevo, anche i docenti e gli alunni sono soggetti alla nostra attività. I compagni e le compagne di classe soprattutto, perché imparino ad aiutare le persone più in difficoltà, le persone più fragili, perché nella vita questo serve. In un mondo che tante volte ci delude, dobbiamo fare del nostro meglio e seminare sensibilità e valori come quello dell’inclusività.
Da chi viene coordinato il servizio che state svolgendo?
Attualmente ci troviamo in una fase di transizione particolarmente delicata. Da quando ho iniziato qui la mia attività, ho sempre collaborato con la cooperativa che ha favorito la nascita di questo servizio nell’istituto dove lavoro. Scaduto il mandato, dopo la gara d’appalto la gestione è stata affidata a due cooperative: una di Napoli ed una di Potenza. Sinceramente ci siamo sentite scivolare via la terra da sotto i piedi: ci è sembrato molto strano questo cambio. In 18 anni di attività, la precedente cooperativa aveva sviluppato professionalità, conoscenza ed un vero e proprio metodo di gestione. Un percorso costruito mattoncino su mattoncino. Ora bisogna ricominciare da zero. Io ed altre educatrici “senior” ci siamo rese disponibili per dare supporto in questa fase: ma fino ad ora hanno preferito non coinvolgerci. Anche per questo motivo, alcune colleghe hanno deciso di cessare la propria attività.
Come è stata gestita la situazione?
È stata condotta una campagna di assunzioni, ma forse troppo velocemente, in modo confuso e disordinato con l’unico obiettivo di sanare la situazione. Il problema è che ci sono dei requisiti da rispettare: la nostra figura richiede dei titoli specifici e una certa esperienza, non tutti possono ricoprirla. Abbiamo in mano delle vite, delle personalità da gestire, da modellare e da curare. La nostra professione non si può improvvisare e non ci si può reinventare educatori da un giorno all’altro. È un servizio molto delicato.
Vorresti aggiungere qualcosa in difesa della vostra professione?
Mi auguro vivamente che alla nostra figura sia riconosciuta prima o poi la giusta considerazione. Soprattutto che non venga snaturata e non le venga attribuito un nome che non le appartiene. Non siamo assistenti alla comunicazione, siamo educatrici. C’è un detto che dice “tutti siamo utili e nessuno è indispensabile”: mi permetto di dissentire. Siamo tutti utili e anche indispensabili, come lo è il lavoro che svolgiamo ogni giorno con i bambini e le bambine che seguiamo.
di Matteo Mercuri