Una proposta di legge di iniziativa popolare che ha raggiunto 4 milioni di firme: “La Carta conserva ancora una fortissima attualità”
Povertà, lavoro, disuguaglianze sociali ed economiche sono alcune delle questioni più urgenti che la maggioranza di centro-destra dovrà affrontare. La crisi economica che il Paese si trascinava da anni, cui hanno dato un brutto colpo la pandemia, il caro energia e l’inflazione, ha generato un preoccupante tasso di povertà e un calo dell’occupazione, generando una platea di lavoratori poveri, con la difficoltà di arrivare a fine mese. L’Italia è l’unico Paese europeo in cui i salari medi sono diminuiti rispetto a 30 anni fa: i nati dopo il 1986 hanno il reddito pro capite più basso della storia italiana, secondo l’Ocse. È sempre più urgente, ormai: bisogna agire sul lavoro, sui diritti, sulla qualità stessa del lavoro. Come una riforma dell’occupazione che punti su queste linee guida può rilanciare l’economia e il benessere del nostro Paese? Ne abbiamo discusso con Umberto Carabelli, giurista, docente di diritto del lavoro all’Università Aldo Moro di Bari e Direttore della Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza sociale, oltre che uno tra i promotori della Carta dei diritti universali del lavoro.
Oggi in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta 5,6 milioni di persone. La distribuzione dei redditi è ineguale, con pochi ricchi e tante famiglie con redditi medio-bassi. Come si può procedere ad una redistribuzione che elimini l’ingiustizia sociale?
Intanto bisogna subito chiarire che molta di questa divaricazione davvero preoccupante dei redditi è l’effetto paradossale di politiche che sono state portate avanti non soltanto in Italia, ma in tutta Europa e in tutto il mondo – in particolare occidentale – fondate sull’idea che lasciando arricchire pochi capitalisti ci fosse poi un effetto a ricaduta di redistribuzione di una parte della ricchezza. È ormai dimostrato che non è così. Come fare allora? Io sono nettamente favorevole a interventi di tassazione delle ricchezze e dei redditi più elevati. Mi fa sorridere amaramente l’idea di creare una flat tax; si tratta invece di ricreare una progressività molto accentuata affinché i ricchi paghino di più e i meno agiati sempre di meno. Si può intervenire già da ora con piccoli interventi “indolore” per raccogliere risorse che consentano di fare politiche sociali adeguate e riequilibrative. Da questo punto di vista, trovo folle l’idea di eliminare il reddito di cittadinanza. Indubbiamente ci sono fattori distorsivi che impediscono al reddito di funzionare come previsto, ma si possono fare delle correzioni normative. Naturalmente, a monte di ogni cosa c’è il problema del rilancio del sistema economico e della riattivazione dei processi occupazionali che consentono alle persone di guadagnare e vivere bene, e di non riprodurre invece una società nella quale chi lavora è povero.
La crisi occupazionale investe il nostro Paese da oltre un decennio e colpisce in particolare giovani e donne, soprattutto nel Sud Italia. Se potesse dare un suggerimento alla politica, cosa consiglierebbe?
Si dice sempre che le leggi non creano di per sé occupazione, tuttavia questa convinzione si scontra con la realtà che è alle nostre spalle: anni e anni di leggi che hanno precarizzato il lavoro, che lo hanno depauperato di diritti e ridotto sempre di più a forme di sfruttamento, hanno condotto non ad un’occupazione sana e diffusa, ma al contrario malata. La precarietà è un elemento che oramai caratterizza in larga misura l’occupazione del nostro Paese. Purtroppo nell’ultimo periodo l’esperienza – anche nei governi di centro sinistra – non è stata soddisfacente. Si è pensato che inseguire le logiche del neocapitalismo moderno fosse utile per dare occupazione e invece non ci si è accorti che si stava cambiando profondamente il mercato del lavoro distruggendo quelle certezze (e ricchezze) che prima caratterizzavano la nostra società. Le logiche della liberalizzazione totale da regole non hanno prodotto nessun valore aggiunto, hanno semplicemente mercificato il mercato e reso il lavoratore sempre più insicuro e povero. C’è bisogno di interventi mirati che servano a rafforzare l’inserimento nel mondo del lavoro di donne e giovani. Da questo punto di vista, trovo iniquo oltre che poco funzionale tenere a lavorare le persone fino a 67 anni. Per equilibrare i bilanci dell’Inps e del sistema pensionistico si è ulteriormente danneggiato il mercato del lavoro rallentando l’ingresso dei giovani. Devono essere messe al centro politiche economiche mirate a sostenere l’occupazione e a incentivare investimenti al Sud.
La Spagna è attualmente ultima in Europa per tasso di occupazione. Non a caso, nei mesi scorsi ha approvato una nuova riforma del lavoro che mira in particolare a contrastare precariato e disoccupazione, regolamentando in maniera rigida il ricorso ai contratti a termine e i licenziamenti. Quello spagnolo è un modello a cui ispirarci?
Io sono stato uno dei curatori della Carta dei Diritti dei Lavoratori che venne promossa dalla Cgil e poi presentata come disegno di legge popolare. La riforma spagnola dà attuazione a una serie di princìpi che fanno parte della buona cultura del lavoro e che noi abbiamo tradotto nella Carta, dove sono contenute già tante di queste cose. Bisogna chiaramente limitare i contratti a termine. Se consentiamo alle imprese di accedere senza nessun limite a questa tipologia contrattuale sarà sempre più difficile che ricorrano a contratti a tempo indeterminato; preferiranno flessibilizzare al massimo la loro realtà occupazionale. Occorre dare una stretta a questo tipo di contratti, bisogna favorire realmente il principio secondo il quale il contratto di lavoro a tempo indeterminato è il contratto di riferimento. Però dobbiamo anche essere consapevoli che il mercato del lavoro sta cambiando, che l’organizzazione delle imprese sta profondamente modificandosi grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. Quindi più che pensare ad una revisione esclusiva del contratto a termine, occorre intervenire anche sul lavoro autonomo. È necessario assicurare a questi lavoratori delle forme di tutela comparabili con il lavoro subordinato, altrimenti la precarietà verrebbe recuperata attraverso l’utilizzo distorto dei contratti di lavoro autonomo consentendo alle imprese – come sta già avvenendo in larga misura – di chiamare autonomi lavori che molto spesso confinano con la subordinazione, pagandoli molto di meno. Noi nella Carta abbiamo seguito una strada interessante: diciamo che in questi casi al lavoro autonomo devono essere applicate le stesse tutele del lavoro subordinato. Così la scelta dell’impresa non sarà fondata su un principio di risparmio del costo del lavoro ma su un principio di utilizzazione del contratto più funzionale alla propria organizzazione.
La Carta dei diritti universali del lavoro – di cui lei è stato tra i promotori – ha avuto un grande sostegno popolare, raggiungendo 4 milioni di firme. Pensa sia possibile rilanciarla e riproporla al futuro Governo?
Ogni idea ha un suo tempo. La Carta conserva ancora una fortissima identità e attualità, quindi sì, ritengo che potrebbe essere un’ottima guida per un Governo che volesse indirizzare le proprie scelte verso forme di tutela sociale. Ci sono alcune parti che possono essere ritoccate: penso per esempio a temi come il salario minimo e la rappresentatività. La Carta non deve diventare un totem intoccabile, ma deve sempre guidarci nell’obiettivo di rafforzare le tutele, senza danneggiare lo sviluppo e anzi favorendolo. Certo, pensare oggi, per esempio, alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese fa sorridere di fronte alla vittoria del centro destra. Però ricordo che c’è sempre un articolo 46 nella Costituzione, che assicura e tutela questo diritto. Inoltre nuovi modelli di sviluppo fondati sull’ecologia, sul rispetto dell’ambiente, sull’energia rinnovabile sarebbero meglio attuabili se ci fosse una cultura diffusa di partecipazione che raggiunga tutte le sfere della società a partire dagli stessi produttori.
di Martina Bortolotti