Montanari: “La cultura riparta da Gramsci”

Intervista allo storico dell’arte: “La Pandemia ha mostrato che il re è nudo. Come si legge nei Quaderni del carcere, la cultura è un servizio pubblico intellettuale ed essenziale. Questo sia il punto di ripartenza”.

“Mi chiede da dove ripartire? Ma dall’idea di Gramsci: la cultura è un servizio pubblico intellettuale ed è essenziale. Perché la pandemia, per usare una metafora, ci ha soltanto detto che il re è nudo. E cosa c’è in questa nudità? Che nel nostro paese la cultura non è affatto un servizio pubblico essenziale”. Abbiamo incontrato il professore Tomaso Montanari, intellettuale e storico dell’arte – complicato definirlo in breve -, per raccogliere le sue idee su come far ripartire la cultura dopo la lunga stasi pandemica.
Innanzitutto professore, cosa ha rappresentato la pandemia per il mondo della cultura?
“Guardi in realtà la Pandemia non ha inventato nulla, ha semplicemente svelato cose a chi non voleva vederle, ovvero che la cultura non è un servizio pubblico essenziale, come al contrario sostenevano strumentalmente Renzi e Franceschini nei giorni dei fatti del Colosseo… Nulla di quella idea alta, mirabilmente esposta da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, di cultura intesa come servizio pubblico intellettuale. Una formula straordinariamente bella e carica di futuro. Eppur rimossa, nonostante l’articolo 9 della Costituzione, negli ultimi trenta/quaranta anni in maniera ossessiva”.
Fino ad arrivare al lockdown.
Quando la pandemia ci ha portato alla riflessione su quali servizi pubblici garantire e come farlo, si è visto molto chiaramente come la cultura e la scuola siano state le prime cose da sacrificare. Naturalmente in tutte le pandemie arriva un momento in cui bisogna chiudere. Solo che noi abbiamo chiuso molto prima e molto male. Mi è capitato in questa fase di citare Churchill…
Prego, racconti.
Al Primo ministro del Regno Unito negli anni della seconda guerra mondiale viene attribuita una frase significativa. Durante i bombardamenti di Londra da parte della Wehrmacht nazista si chiedeva da più parti la chiusura dei teatri – richiesta non del tutto folle – e che Churchill a questa avesse risposto: ‘Ma allora per che cosa stiamo combattendo?’. Una frase che racchiude una idea di cultura, intesa come condivisa e collettiva nello spazio pubblico, che rappresentasse le ragioni di una civiltà da difendere e per cui resistere.
Peraltro non sono mancati i paralleli tra pandemia e guerra.
Solo che noi ci siamo ritrovati chiusi nelle nostre vite private, privatizzati nell’esistenza come tante monadi, con lo spazio pubblico il primo a cadere. Il fatto che si siano celebrate le messe ma non tenuti aperti i teatri è sintomatico di una idea di cultura che non serve perché non essenziale, superflua, una frivolezza. Il tutto nel totale sprezzo per la vita delle persone che vivono del lavoro culturale. Infatti, allo stesso tempo, è emerso con chiarezza che la cultura italiana si basa su di un enorme schiavismo, su precariato, lavoro sottopagato e demansionato. Svelata, insomma, l’illusione di costruire in una prospettiva costituzionale una liberazione – perché la cultura è liberazione – attraverso un lavoro senza dignità.
Allora cosa servirebbe alla cultura per ripartire?
Bisogna ripartire dall’idea di Gramsci: la cultura è un servizio pubblico intellettuale ed è essenziale. Deve essere gratuito, aperto a tutti e fondato sul lavoro dignitoso e sufficiente, ovvero più occupazione per tenere aperta la cultura. Biblioteche e archivi, ad esempio, sono chiusi per la pandemia ma lo erano di fatto anche prima per l’assenza di personale. Ma non c’è solo questa di mancanza.
Cos’altro?
C’è una spaventosa mancanza di idee. A partire da quella portante, ovvero di cultura intesa come servizio pubblico: non è tempo libero o intrattenimento ma democrazia e formazione dei cittadini. Ecco: bisogna cambiare radicalmente prospettiva.
Come ne usciamo allora?
Di sicuro se da questa crisi ne usciamo con la Netflix della cultura o con l’arena del Colosseo, siamo all’idea di un patrimonio culturale e di una cultura intesi come puro intrattenimento, o meglio, come rincoglionimento di massa. In realtà la Costituzione dice tutt’altro: la cultura serve a esprimere dissenso, a strutturare il nostro essere cittadini critici e a nutrire il nostro pensiero critico. C’è una idea di cultura da rivedere radicalmente, nel solco gramsciano e costituzionale, mentre qui si parla di intrattenimento o di turismo. Se si prende il Pnrr per la cultura c’è il 3% delle risorse, quasi tutte rivolte alla valorizzazione dei grandi attrattori turistici. Non c’è nulla per la cultura intesa come crescita collettiva del pensiero critico. Nulla. E questo è un problema evidente.