Il sistema carcere italiano ha raggiunto senza ombra di dubbio il livello più basso degli ultimi 50 anni. E’ dai tempi delle rivolte degli anni ‘70 che non si registravano eventi così violenti e sistematici. Da troppi anni il mondo del carcere è stato abbandonato a se stesso. Al netto di decreti di emergenza che si sono ripetuti nel tempo, l’ultimo vero tentativo di revisione legislativa è stato il DPR 230 del 2000, nuovo regolamento di esecuzione della pena, che soprattutto in materia di adeguamento strutturale (acqua calda e docce in cella, costruzione refettori etc.) rimane a distanza di 24 anni ancora inattuato. Il blocco decennale delle assunzioni del personale pubblico degli anni Duemila ha creato, oltre che una carenza di organico, un vuoto generazionale che oggi costa soprattutto in termini di formazione del personale di Polizia penitenziaria. Di fatto ci troviamo di fronte ad una spaccatura netta: da una parte personale anziano, stanco, demotivato e dall’altra personale giovanissimo che non trova riferimenti e accompagnamento in un mondo dove la formazione te la fai quasi esclusivamente sul campo.
Il blocco delle assunzioni ha danneggiato oltre che la Polizia penitenziaria soprattutto la Dirigenza penitenziaria, infatti per anni i Direttori delle carceri si sono trovati a dover Dirigere contemporaneamente almeno 3 o 4 Istituti, situazione simile per i Comandanti.
Inoltre, si aggiungano il sempre attuale problema del sovraffollamento, la promiscuità della popolazione detenuta composta oggi, soprattutto nei circuiti di media sicurezza, da stranieri i quali quasi mai hanno riferimenti sul territorio, e si comprende l’inizio della fine del sistema penitenziario italiano. A tutto questo aggiungiamoci la chiusura degli OPG, che se da un lato ha rappresentato o quanto meno voleva rappresentare una azione di civiltà, di fatto ha obbligato a richiudere i soggetti psichiatrici nelle carceri comuni, con evidenti problemi di convivenza, gestione anche e soprattutto dal punto di vista sanitario. Altra grave criticità riguarda la sanità all’interno delle carceri. Spostando le competenze dall’amministrazione penitenziaria al SSN, oggi si registra una grave criticità dovuta in modo particolare alle visite esterne, che comportano oltre che un elevato rischio di sicurezza, un enorme carico di lavoro per effettuare le traduzioni dei detenuti.
Infine, non si può pensare di gestire una popolazione detenuta lasciandola libera di girovagare all’interno delle sezioni detentive senza nessun impiego. Tanto comporta che i detenuti più strutturati esercitano ruoli dominanti ai danni di quelli più deboli o bisognosi.
La mancanza di risposte a tutto questo ha generato ed alimentato il fenomeno delle aggressioni agli operatori penitenziari ed ai poliziotti penitenziari in modo particolare. Fenomeno assolutamente trascurato dai vertici dell’Amministrazione i quali si “vantano” di affrontare il problema trasferendo i detenuti facinorosi, omettendo di dire che gli stessi reiterano continuamente questi comportamenti senza che nei loro confronti vengano assunti provvedimenti che impediscano la reiterazione. Il fenomeno, partito con le rivolte del marzo del 2020, in seguito alle restrizioni per contenere la diffusione dell’epidemia da Covid-19, oltre alla previsione di un nuovo reato per chi promuove e mette in atto rivolte nelle carceri non ha dato nessuna risposta e soprattutto ha fatto aumentare in modo esponenziale i disordini e le rivolte.
Nonostante l’evidente fallimento del sistema si continua a narrare una favola ai cittadini sulla pelle dei poliziotti penitenziari che sanno quando entrano a lavoro senza sapere quando escono ed in che condizioni.
Donato Nolè, coordinatore nazionale Fp Cgil Polizia penitenziaria