Bentivegna: “Il pluralismo informativo non insegua l’audience”

Bentivegna: “Il pluralismo informativo non insegua l’audience”

I social network sono realtà in continuo divenire, così come le discussioni che gli orbitano intorno. Si fa spesso fatica a capire se le piattaforme digitali rappresentino una risorsa o una minaccia per la nostra società. Da una parte vengono elogiati per aver attivato connessioni altrimenti impossibili, dall’altra vengono demonizzati per il tutto il poco di buono di cui favoriscono la circolazione. Con Sara Bentivegna, docente esperta in comunicazione politica e digitale, abbiamo provato a fare chiarezza sul tema.

Quello tra social network e politica è da sempre un rapporto conflittuale: si dovrebbero individuare regole minime di convivenza per far coesistere i due mondi?

Non credo che abbia molto senso cercare queste regole e soprattutto non credo che sia possibile: né trovarle, né applicarle. La politica è diventata sempre più conflittuale e quindi si riflette anche nella presenza poi sui social network. D’altra parte, i social network sono per loro caratteristica fortemente attraversati da correnti di emotività quindi anche lì la conflittualità scoppia su qualsiasi argomento o provocazione. Quindi, a mio avviso, non c’è tanto la necessità di trovare regole di convivenza tra i due mondi. Andrebbero ricercate piuttosto all’interno di ognuno, ma mi rendo conto sia molto complesso.

Secondo Lei è opportuno che i social, società private ma con una grande influenza nel dibattito pubblico, scelgano di censurare i contenuti secondo proprie regole interne?

Le piattaforme hanno delle policy che vengono sottoscritte dagli utenti e non vengono stabilite in corso d’opera senza che questi ne siano a conoscenza. Quindi le lamentele che ci sono talvolta, come quelle sulla censura di D. Trump, mi sembrano un po’ infondate. È chiaro che, alla luce delle ripetute violazioni delle policy, Twitter abbia deciso di far valere quelle regole che si è dato. Non è niente di scandaloso o di inaspettato, mettiamola così. Questo vale anche, per esempio, per la disinformazione che circola significativamente e che quindi anche in quel caso può essere censurata dalla piattaforma.

Propaganda politica, campagne elettorali e toni spesso accesi, a volte violenti, fino a sfiorare l’incitamento all’odio con la conseguente decisione da parte dei social network di censurare alcuni contenuti. Dov’è il confine tra la necessità di tutelare valori democratici come quello contro ogni discriminazione, da una parte, e di garantire il pluralismo politico, dall’altra?

Questo è un tema estremamente complesso. Nella letteratura, talvolta, si sostiene spesso qualsiasi presa di parola in nome della libertà d’espressione: io non credo sia un approccio corretto. La libertà d’espressione di un singolo o di un gruppo che sia, non può essere difesa nel momento in cui lede i diritti degli altri.  Garantire il pluralismo informativo o politico – l’abbiamo visto recentemente anche in Italia, nei talk show e non solo sui social network – non vuol dire per forza sostenere tutte le posizioni e dare loro la stessa dignità o la stessa validità. Un tempo il pluralismo informativo teneva conto di diverse posizioni altrettanto fondate che venivano messe a confronto. Oggi sembra che in nome del pluralismo ogni posizione – anche la più bizzarra – debba godere di un diritto di udienza; se sostengo che gli asini volano, è difficile poi che io possa rivendicare il diritto a partecipare ad una discussione scientifica. Invece, molto spesso, accade che questo diventi il cavallo di Troia attraverso il quale si fanno passare delle interpretazioni infondate, minoritarie e belligeranti solo per attirare alcune quote di pubblico. Fare audience è un po’ diverso dal garantire il pluralismo informativo.

I fini commerciali inficiano il dibattito pubblico?

Sia i soggetti politici con fini elettorali che i media informativi con fini commerciali trovano una risorsa nell’inciviltà politica. I primi scelgono modalità comunicative riconducibili all’inciviltà proprio perché ne hanno un ritorno in termini di visibilità e di costruzione dell’identità. Allo stesso tempo i media hanno interesse a dare spazio a posizioni infondate o provocatorie per evidenti tornaconti commerciali. Nei giorni scorsi al Maurizio Costanzo Show la rissa tra Mughini e Sgarbi ha segnato il momento più alto di ascolto. La trasmissione era in differita, avrebbero potuto tagliarla, ma il coverage informativo è attratto dall’inciviltà e da queste forme di contrapposizione. In questo contesto, infine, è ovvio che anche i cittadini si riflettono in quelle categorie e quei codici che consentono loro di sfogarsi e di rappresentare delle posizioni estreme. La deriva a cui assistiamo oggi in realtà è un fenomeno che si spiega facendo riferimento alla strategia costruita da diversi attori.

Quanta parte di responsabilità hanno i social network nella polarizzazione del dibattito pubblico?

I social network enfatizzano il problema soltanto perché lo riflettono e lo rendono visibile, ma non sono la causa della polarizzazione, dell’hate speech o dell’inciviltà. Qualsiasi luogo pubblico in cui ci può essere un’interazione diventa un luogo in cui si può sentire di tutto, l’unica differenza con i social network è che poi rimane circoscritto lì. Attraverso i social invece si sviluppa un’interazione caratterizzata da una grande velocità di diffusione, nonché di pubblicizzazione che fa si che si attivino altri meccanismi. La polarizzazione è il frutto di uno sdoganamento delle emotività nel discorso pubblico, è qualcosa che precede i social network e che si riflette in essi. La polarizzazione non è più di natura teologica o ideologica, ma è di natura affettiva e la troviamo su temi trasversali. Oltretutto questi schieramenti – come i “no vax”, i “no pax” – mettono insieme valori appartenenti alla destra e alla sinistra in maniera casuale. Affibbiare la responsabilità ai social network, oltre che ingiusto, non ci aiuta a capire la radice del problema.

Ma la profilazione attuata dalle piattaforme digitali, il suggerimento di contenuti a noi affini, le cosiddette camere dell’eco, non sono fenomeni che vanno a favorire la polarizzazione?

Anche qui, secondo me, siamo di fronte ad una scorciatoia interpretativa. Queste sono teorie che hanno avuto molto successo, specie in Italia, ma quando poi vengono studiate dal punto di vista empirico si dimostrano evanescenti. Le camere dell’eco, ad esempio, non hanno pareti corazzate e impermeabili, ma al contrario vengono definite porose, perché gli individui in realtà entrano in contatto con molti altri contenuti. Prima dei social network, vi erano già alcune emittenti televisive che potrebbero essere definite camere dell’eco; ci siamo semplicemente spostati da una piattaforma all’altra. Quindi dobbiamo fare una riflessione più ampia e profonda; perché i soggetti scelgono di consumare soltanto un’informazione coerente con la propria visione del mondo? Quanti sono i soggetti che fanno questa scelta? Questi sono i veri dati che ci dovrebbero interessare.

Quindi, in definitiva, i social network sono una risorsa o un pericolo? Favoriscono o sviliscono la qualità e la trasparenza del dibattito pubblico?

Come afferma S. Kharrat le nuove tecnologie non sono né buone né cattive e nemmeno neutrali; molto dipende dall’uso che gli attori fanno dei social network. Potrebbero rappresentare per esempio un’incredibile occasione di circolazione di notizie o di testimonianze dal basso come sta avvenendo attualmente nel corso del conflitto tra Russia ed Ucraina, e diventare quindi fonte per i media tradizionali. Ma allo stesso tempo ci sono criticità insite nella struttura dei social come la formazione di sciami contro soggetti o la diffusione di disinformazione perché poi non c’è controllo. Si stanno riproducendo fenomeni già esistenti, solamente veicolati dai meccanismi di viralità, di velocizzazione e di pubblicità dei social network.

 

di Matteo Mercuri