Ancora oggi, di fronte all’evidenza scientifica della crisi climatica in corso, c’è chi nega il fenomeno, chi nega le responsabilità dell’uomo per questa disfatta ambientale, chi fa di tutto per ritardare il dibattito e le azioni per contrastare questa emergenza. Il pubblico si divide tra chi rivendica l’urgenza della questione e chi sminuisce, deride, prende le distanze. Ma perché la verità scientifica viene così spesso messa in discussione? Il negazionismo è un fenomeno spontaneo o una strategia creata ad arte? Lo abbiamo chiesto a Stella Levantesi, giornalista e fotografa esperta di cambiamento climatico, autrice del libro “I bugiardi del clima”, edito da Edizioni Laterza ed uscito nel maggio scorso.
Dai negazionisti del Covid a quelli del clima. Cosa sostengono esattamente “i bugiardi del clima”?
In senso stretto, i negazionisti climatici – che io nel mio libro chiamo “I bugiardi del clima” – sono coloro che negano l’esistenza del cambiamento climatico e la responsabilità dell’uomo nella crisi climatica. Ma non è necessario negare l’esistenza del cambiamento climatico o la responsabilità dell’uomo per essere negazionisti. Fare di tutto per ritardare le politiche climatiche, seminare il dubbio sulla scienza del clima, confondere il pubblico, il greenwashing, questi sono tutti diversi aspetti della narrazione negazionista.
Da quando è nata, negli anni ‘70 e ‘80, la strategia negazionista ha puntato a seminare dubbi sulla scienza del clima. L’obiettivo, infatti, era convincere il pubblico che il cambiamento climatico non era una realtà scientificamente fondata ma solo una teoria, un’opinione, quindi discutibile.
Ma oggi negare l’esistenza del cambiamento climatico è sempre più difficile anche per i bugiardi del clima, quindi le strategie utilizzate sono spesso più insidiose e più difficilmente riconoscibili, e rientrano in quel bacino di sforzi volti alla “procrastinazione climatica”. L’approccio, comunque, e gli strumenti utilizzati restano gli stessi: la manipolazione dei dati e della scienza, la manipolazione e strumentalizzazione mediatica, l’uso di argomenti fallaci, la propaganda politica e, su tutto, i finanziamenti della lobby negazionista. Anche l’obiettivo è sempre lo stesso: ritardare e ostacolare il più possibile le politiche climatiche e l’azione per il clima.
Il negazionismo climatico è un fenomeno spontaneo o una strategia costruita ad hoc? Quali interessi ci sono in gioco?
Il negazionismo non si limita a rimuovere la realtà, ma ne crea una alternativa. È strategico e intenzionale perché fa leva su motivazioni politiche ed economiche ed è un fenomeno strutturato e organizzato. Per questo si parla di macchina del negazionismo climatico, composta da aziende di combustibili fossili, lobby e gruppi di pressione, associazioni industriali, think tank di stampo conservatore, politici conservatori e la cosiddetta “camera dell’eco”, di cui fanno parte alcune piattaforme mediatiche che alimentano la narrazione negazionista.
Ci sono molteplici interessi in gioco. Il primo ha a che fare con il potere e il denaro. Le aziende di combustibili fossili non potevano permettere che la propria attività fosse compromessa, e agire per ostacolare le politiche climatiche era fondamentale per mantenere quello che viene chiamato il business as usual e, di conseguenza, per continuare a guadagnare. Nel libro ripercorro il ruolo delle aziende nella campagna di disinformazione sul clima, in particolare del caso Exxon, il più esemplare. Già dagli anni ’70 e ’80, infatti, gli scienziati interni all’azienda Exxon avevano scoperto il legame tra l’attività di bruciare combustibili fossili e l’aumento delle emissioni (e il conseguente aumento della temperatura). La Exxon sapeva tutto quello che c’era da sapere per affermare l’esistenza del cambiamento climatico e ammettere la propria responsabilità. Eppure, invece di cambiare rotta, ha fatto di tutto per nasconderlo costruendo una vera e propria campagna di disinformazione sul clima durata decenni. La più grande opera di insabbiamento della storia recente. Quando questi fatti vennero alla luce nel 2015 grazie ad un’inchiesta giornalistica, è nato l’hashtag #Exxonknew, #Exxonsapeva. E non era l’unica compagnia, anche la Shell e altre aziende sapevano. Solo che hanno scelto di nasconderlo.
Tuttavia, dire che gli interessi dei negazionisti sono solo di tipo economico sarebbe incompleto. In realtà hanno molto a che fare con la politica e la psicologia.
Gli interessi dei negazionisti, infatti, riflettono un sistema di valori che spesso si sovrappone soprattutto con l’identità politica conservatrice negli Stati Uniti, e populista di destra, sovranista o ultraliberista in Europa e in Italia. Nei casi estremi, dove l’identità negazionista coincide con quella ultraconservatrice, ci sono anche altri elementi che interagiscono e si rafforzano tra loro come la xenophobia e la misoginia.
Come per tutte le tendenze cospirative, poi, alla base c’è un sentimento in particolare: la paura. I negazionisti sono terrorizzati dal perdere i propri benefici sociali. Anche per questo i sociologi parlano di “effetto maschio bianco”: l’uomo bianco e conservatore è il più preoccupato a perdere il suo status quo nella società e il proprio senso di identità.
E le persone ci cascano… Sembra si stia smarrendo sempre di più la capacità di affidarsi alle competenze e alle istituzioni. Assistiamo sempre più spesso alla messa in discussione di verità appurate scientificamente. Secondo te perché sta succedendo e quanto è pericoloso?
Questa dinamica non è nuova. Quello che oggi è diverso – e in questo senso più pericoloso – è che gran parte della disinformazione avviene online e sui social media e quindi ha una diffusione potenzialmente più veloce, estesa e dannosa. E il rischio è quello di restare “intrappolati” in una bolla. Un rapporto del 2020 mostra come gli annunci pubblicitari che negano la crisi climatica su alcune piattaforme social siano stati visualizzati milioni di volte in pochi mesi senza mai essere rimossi.
Un altro grande problema è che spesso il messaggio negazionista è amplificato sulle piattaforme mediatiche, anche quelle considerate “progressiste”. Durante le settimane della COP, abbiamo assistito ad un aumento di interventi negazionisti in televisione, sui giornali e online. Questo non è stato un caso, storicamente la macchina negazionista si attiva a pieni giri quando l’azione per il clima è al centro dello scenario politico. Quello che è problematico in Italia è che alcune piattaforme mediatiche ancora danno spazio a posizioni negazioniste sul clima come se il dibattito scientifico sull’esistenza del cambiamento climatico o sulla responsabilità antropica nella crisi climatica fosse ancora in corso. Non lo è ormai da decenni. E questa è informazione irresponsabile e molto dannosa. Intervistare un negazionista per parlare di clima è un po’ come intervistare un terrapiattista per parlare della Terra. È anti-scientifico. E questo non aiuta a creare fiducia, anzi, contribuisce a polarizzare ancora di più il problema, che invece necessita di azione urgente ed efficace.
Cop26: gli impegni presi sono sufficienti?
È stata, con le parole del presidente della Conferenza Alok Sharma, una “vittoria fragile”. Sharma ha dichiarato che l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale entro 1.5° è ancora in vita ma “il suo polso è debole”. E la realtà è che tutto dipenderà da quanto i governi rispetteranno gli impegni presi e le promesse fatte.
Sono stati fatti dei passi in avanti: nel documento finale, per la prima volta, si fa riferimento ai combustibili fossili, al metano e alla necessità di eliminare i sussidi per il settore. Cina e Stati Uniti, che rappresentano circa il 40% delle emissioni globali, hanno annunciato un accordo di intesa per la riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030. Ed è nata la Beyond Oil and Gas Alliance (BOGA), co-fondata da Danimarca e Costa Rica, i cui membri dovranno impegnarsi a porre fine all’esplorazione e la produzione di petrolio e gas.
Tuttavia, ci sono ancora molte pressioni per ritardare il più possibile la decarbonizzazione. Non a caso, all’ultimo minuto, si è parlato di “riduzione graduale” dell’uso del carbone e non più di “eliminazione”, come ci saremmo tutti aspettati. Inoltre, non è stato preso un impegno concreto da parte dei paesi ricchi sui finanziamenti ai paesi più vulnerabili, e anche molto meno responsabili delle emissioni. Secondo Climate Action Tracker, poi, gli attuali impegni nazionali mettono il mondo in rotta per un riscaldamento di 2,4 °C entro la fine del secolo. Insomma, resta ancora molto da fare.