PSICOLOGO DI BASE - spazio pubblico

L’esperta: “Si allo psicologo di base, ma così non funzionerà mai”

Alcune Regioni hanno recentemente introdotto lo psicologo di base nel loro sistema sanitario e altre si apprestano a farlo nei prossimi mesi. Ognuna procede autonomamente senza linee guida e le modalità con cui questo professionista dovrebbe operare ed essere collocato all’interno del Servizio Sanitario Nazionale sono ancora confuse.

Sul tema abbiamo intervistato la Dott.ssa Maria Teresa Coppola – psicologa psicoterapeuta all’ASL di Taranto – e dal suo punto di vista stiamo perdendo un’altra opportunità di fare la cosa giusta: “Ci siamo dimenticati i principi fondamentali che istituivano il nostro SSN!”. Un pensiero diffuso, una delle ragioni che hanno spinto Cgil e Uil a indire una manifestazione nazionale il prossimo 19 ottobre a Roma. 

Dall’inizio dell’anno diverse regioni stanno via via introducendo in piena autonomia la figura dello psicologo di base. In cosa consiste e quale sarebbe la sua mansione?

La denominazione della figura evoca quella del cosiddetto medico di famiglia, che ad oggi non può essere presa come modello perché presenta molte lacune organizzative. Non esiste ancora una legge nazionale che istituisca lo psicologo di base e questo implica che al momento possiamo soltanto definire l’intento dei diversi legislatori regionali. Lo psicologo di base è una figura che dovrebbe operare nei luoghi di prossimità dei cittadini con lo scopo di intercettare un bisogno di salute psicologica prima che diventi sintomo da portare ai servizi di secondo livello. Lo psicologo a supporto di conclamate patologie, infatti, svolge un’altra funzione ed è già radicato all’interno del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Più che di psicologo di base dovremmo parlare di Psicologia di base, quella cioè vocata alla prevenzione e alla promozione della salute, che individua un bisogno prima che questo possa diventare un problema più grave. Il problema di fondo non è introdurre una nuova figura professionale, ma rispondere adeguatamente ai bisogni di salute psicologica primaria delle persone.

Una persona può richiedere una prestazione allo psicologo di base?

Certo, ma non è questo il punto. È una domanda che mi viene posta ogni volta che parlo di questa figura e alla base c’è un’interpretazione che in parte può derivare dalla denominazione della stessa e in parte dal modello di salute che abbiamo in testa. Siamo abituati ad un modello di “richiesta di prestazione” che viene dall’utente, ma in realtà lo psicologo di base non dovrebbe rappresentare un altro ambulatorio o un altro specialista che si aggiunge a quelli già esistenti, con il rischio di sovrapporsi. Questo è quello che rischia di diventare, ma la filosofia positiva che sta dietro la psicologia di base è un’altra. L’idea è infatti quella di una psicologia di comunità – la psicologia come scienza, come modo di leggere le relazioni tra persone – calata all’interno dei vari contesti con lo scopo di produrre reti sociali meno foriere di malessere. Le strutture che rispondono ad un cittadino che si accorge di avere un problema – anche se sono ridotte all’osso – esistono già e svolgono una funzione totalmente diversa da quella dello psicologo di base.

Come può fare lo psicologo di base ad intercettare un bisogno senza che sia il cittadino il primo ad accorgersene?

Il lavoro di prevenzione non è un lavoro basato sulla richiesta. Facciamo un esempio: prendiamo una ragazza-madre in condizioni economiche svantaggiate, senza un compagno e una rete sociale che la aiuti nella genitorialità. La ragazza potrebbe sviluppare un disagio, rischiando di trasmettere questo malessere al figlio dal momento che è la sua unica figura di riferimento. Non è affatto scontato che in questa situazione la ragazza chieda aiuto o si rivolga ad un consultorio. Allora è qui che entra in gioco lo psicologo di base che dovrebbe rilevare la difficoltà – magari perché la ragazza per una causa qualsiasi non iscrive il figlio alla scuola elementare – ed intervenire. È un lavoro di rete che consente allo psicologo di intercettare dei bisogni che spesso i nostri servizi, sia sociali che sanitari, non sono in grado di leggere semplicemente perché non li vedono. Le competenze psicologiche permettono invece di mettere gli occhiali ed attivare i servizi prima che sia il cittadino a farlo.

Secondo lei questa modalità di operare è farraginosa e quindi difficile da mettere in pratica o ha delle potenzialità?

Questo sistema è valido ed è fattibilissimo, bisogna soltanto cambiare i nostri modelli di salute. Invece siamo fermi al modello di mercato: io ho un bisogno e vengo da te perché mi offri la possibilità di risolverlo. Ma la salute non è questo. Per la vaccinazione, ad esempio, c’è un sistema che funziona: quando si ha un bimbo dal dipartimento di prevenzione arriverà una missiva ad i genitori che verranno convocati un determinato giorno per effettuare la vaccinazione. Lo Stato non aspetta che siano loro a presentarsi, perché sa quali sono i rischi e qual è l’importanza dei vaccini, quindi si fa proattivo. Da psicologa mi chiedo sempre: ma ci vuole tanto a far trovare uno psicologo quando i genitori portano il bimbo a vaccinarsi? Ci vuole tanto a mettere insieme anche la prevenzione della depressione post-partum? È questo lo psicologo di base, la figura che in questo caso potrebbe offrire un colloquio ed effettuare uno screening. Sapete quanti bisogni si potrebbero intercettare in questo modo? Una marea. Ma questo è solo un esempio di quello che potrebbe fare lo psicologo di base, collocato in un servizio come quello delle vaccinazioni nel quale sembrerebbe non c’entrare niente. La pandemia ci ha insegnato che non c’è esperienza della vita umana che non abbia una dimensione psicologica. Le malattie oncologiche, le patologie croniche: lo psicologo di base dovrebbe occuparsi anche di questo, della dimensione psicologica di una malattia organica. Se noi guardassimo le reti sociali – e in questo caso familiari – saremmo in grado di operare con tempestività ed efficacia.

Come il medico di famiglia, lo psicologo di base avrebbe una rete sociale alla quale fare riferimento?

Sta proprio qui il problema. Se così fosse, se continuiamo a ragionare secondo il modello della governance territoriale, dello specialista responsabile di un determinato bacino di utenza, stiamo sbagliando strada. Uno dei vulnus delle leggi regionali che attualmente istituiscono lo psicologo di base è proprio questo: non dicono qual è il modello secondo il quale dovrebbe lavorare. Bisogna cambiare i nostri modelli se vogliamo che questo psicologo non sia l’ennesimo ambulatorio dove il paziente deve arrivare con le proprie gambe. In questo caso, la consapevolezza di stare male e la richiesta di prestazione annullerebbero il principio della prevenzione.

Nelle Commissioni Parlamentari si sta discutendo una proposta di legge che istituisca lo psicologo di base a livello nazionale. Cosa ne pensa?

Una legge come quella attualmente in discussione va contro tutto quello che ci siamo detti finora. Il testo prevede che lo psicologo di base sia una figura scollegata dagli altri servizi sanitari, che opera praticamente come un libero professionista svincolato dal SSN. Stiamo ripetendo lo stesso errore che abbiamo commesso con la scelta del rapporto di convenzione dei medici di base, nonostante già da diversi anni ne abbiamo riscontrato il fallimento. Quindi non perché la figura non sia necessaria, ma perché è letteralmente scollata da tutti gli altri servizi di assistenza e di cura. Il testo prevede anche che debba essere previsto uno psicologo ogni 4/7 medici di base: ma quale psicologia di rete vogliamo fare con un bacino d’utenza di 30 mila persone per ogni psicologo? E non finisce qua. La ciliegina sulla torta è che questo ruolo potrà essere ricoperto da professionisti laureati in psicologia senza che sia necessaria una specializzazione. Auguro il meglio a questi giovani colleghi ma questo è un ruolo di raccordo delicato e complesso. Dovranno fare lavoro di rete, di prossimità, di prevenzione, dovranno mettere d’accordo servizi che tra di loro non si parlano e fare in modo che le persone non si perdano tra un servizio e l’altro. Tutto questo senza una supervisione.

Quale dovrebbe essere, secondo lei, il modello da seguire?

L’istituzione dello psicologo di base forse si potrebbe semplicemente tradurre in un diverso modello operativo degli psicologi che già ci sono, incrementando le assunzioni di queste figure nei Servizi Pubblici. Basterebbe mettere la psicologia di comunità in rete con le altre conoscenze. Dobbiamo mettere insieme le diverse professionalità per dare vita a comunità più sane e a servizi sociosanitari che sappiano collaborare: la parola-chiave è sinergia. Invece abbiamo perso la bussola, abbiamo dimenticato il principio che stava alla base della prima riforma che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale e cioè “La salute non si fa negli ospedali. La salute si fa nel territorio”. Se non facciamo lavoro di prossimità, se non interveniamo prima che il danno si presenti, non produrremo mai salute ma metteremo soltanto delle pezze alla malattia. Amiamo dire “One Health” perché abbiamo finalmente scoperto che la nostra salute è influenzata da quella degli animali, da quella della comunità e del territorio in cui viviamo: la salute è un prodotto di rete. Ma che fine ha fatto l’idea di essere vicini alle persone?

 

di Matteo Mercuri