Nell’epoca della costante connessione alla Rete, con una presenza sempre più pervasiva degli smartphone nella vita d’ogni giorno, i concetti di adolescenza, emotività, solitudine, realtà fisica, realtà virtuale appaiono sempre più interconnessi tra loro. Approfondiamo il tema con Maria D’Ambrosio, professore associato di Pedagogia generale all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, partner per il Piano di Azione SmArtLab condiviso con l’ASL Napoli 1 centro – Dipartimento di Salute Mentale e Neuropsichiatria Infantile del Distretto 24, e membro del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica.
Fino a qualche anno fa i rapporti tra le persone si costruivano con le parole, gli sguardi, le espressioni del viso, la gestualità. Oggi a prevalere sono i rapporti mediati dai social. Quali sono le conseguenze di questa “intermediazione”?
A mio avviso è sempre umanamente centrale la sfera relazionale e la modalità con cui proviamo a creare interazione con il mondo esterno e con gli altri. La scelta di una parola, di questo o quel gesto, o di un suono e di una postura, sono parte di un sofisticato sistema che incorporiamo e che ci pare ‘naturale’ mentre è il frutto di un complesso processo in cui impariamo a modulare l’azione comunicativa in base agli interlocutori e soprattutto alla situazione. Trovare il mezzo più adatto per dare forma ai propri pensieri e condividerli con gli altri e a trasformarli grazie all’interazione con i pensieri degli altri, è una fatica che ci accompagna da sempre e che produce risultati non sempre prevedibili né efficaci. Quindi l’intermediazione è una costante delle relazioni interpersonali: si cerca il modo per arrivare a incontrare l’altro e a colmare il vuoto della distanza. È una questione di tatto, potremmo dire con il filosofo Jean-Luc Nancy, perché nei rapporti tra le persone è sottesa sempre la ricerca della modalità del prendere contatto tra il proprio mondo e quello fuori da Sé. Vicino e lontano sono categorie che chiamano in causa il sentire. Per questo l’uso che facciamo dei ‘mezzi di comunicazione’, dalla parole, ai gesti e alla ‘faccine’, siano esse mediate o meno da uno spazio fisico o da schermi e altri dispositivi, è importante perché può cambiare completamente il senso se produce interazione tra le persone e i loro mondi. C’è da allenare, dunque, all’uso sociale del mezzo, cioè alla sua funzione di presa di contatto e di interazione che implica anche ascolto, farsi presente all’altro e al contempo fare spazio alla presenza dell’altro. È come in una danza. I contesti educativi e formativi, fuori dal proprio guscio domestico o dalla bolla dell’algoritmo, sono importanti per apprendere modalità di interazione che eccedono il ‘lessico famigliare’ e aprono ad altri ‘paesaggi’, attivando una apertura necessaria al dialogo e alla relazione, fatti di dissonanze più che di omologanti accordi. Credo, per questo, che sia urgente una nuova attenzione alla dimensione sociale della comunicazione, più che una posizione demonizzante o esaltante dei social media.
Stiamo perdendo la capacità di gestire le nostre emozioni?
E’ tutta questione di pelle. E anche di orecchio, diremmo con Alfred Tomatis. Parliamo di comunicazione: cioè di una esposizione all’altro che implica al contempo anche un sentire l’altro, essere emozionati, mossi da quello che ci tocca. Allenare pelle e orecchio fa parte di una pratica educativa fondamentale che richiede uno sguardo pedagogico, etico, non eludibile in tutto il discorso – che qui forse stiamo invocando – sulla formazione e il suo valore sociale. Se oggi traduciamo il disagio personale e sociale in fenomeno attribuibile alle macchine e al loro ruolo disumanizzante, è forse perché abbiamo fatto anche delle emozioni un cibo in scatola, un prodotto in vendita, o, ancor peggio, un’ora d’aria. Credo vada riconosciuta, e non solo dai trattati di neuroscienze, la natura emotiva del vivere e quindi la matrice senso-motoria del pensare e dell’agire così da riconoscere anche l’importanza della materialità delle cose oltre che della capacità di tradurle in parole e altri oggetti simbolici. Mi riferisco dunque alla necessità di fare spazio al corpo e ad una pedagogia del sentire perché l’individuo possa formarsi all’essere singolare plurale, per dirla ancora con le parole del filosofo Jean-Luc Nancy. Si tratta di ricordarci che tutta l’avventura umana è legata a questa necessità antropologica che chiamiamo emozioni: uscire da sé e farsi altro, toccare e farsi toccare, imparare a fare spazio al differente e quindi al ‘perturbante’. Tutto spinge verso il soddisfacimento di bisogni e desideri. Mentre vitale è spostarsi dal tracciato preordinato delle convenzioni ed esplorare la ricchezza e la bellezza del mondo inatteso. Difficile in un contesto di ‘anestesia totale’ e di omologazione, consenso, conformazione che sembrano costituire l’unico orizzonte sociale e culturale possibile e offrire benessere in pillole (sarebbe interessante analizzare per esempio i dati sull’uso e consumo di psicofarmaci, oltre che di sostanze cosiddette stupefacenti). Occuparsi della sfera emozionale del vivere significa risvegliare il proprio sentire e allenarlo ai pieni e ai vuoti, alle gioie e ai dolori, dunque al vivere pienamente insieme agli altri.
È possibile educare ai social, oppure possiamo solo “limitare i danni”?
È importante educare all’uso dei social media così come importante educare all’uso sociale di tutte le forme e i mezzi di comunicazione. Spesso mi sembra che anche l’uso delle parole sia diventato puro gesto meccanico, vuoto di senso, fatto per assonanza e ripetizione ma nel quale manca il senso e la presenza consapevole di chi ne è autore. Manca cioè il senso dell’altro, la funzione relazionale dell’uso dei media. L’educazione è chiamata in gioco in maniera fondante. Quindi l’educazione tra pari come l’educazione e le relazioni intergenerazionali. La Scuola e le altre Istituzioni spesso sono distratte da questioni tecniche e perdono il senso della loro funzione educativa e quindi lasciano che la deriva qualunquista e opinionista prevalga sul senso della comunità che si acquisisce proprio nei contesti sociali come la Scuola. Comunità e comunicazione non sono solo parole ma pratiche del vivere in relazione che comprendono anche errori, incomprensioni, e soprattutto pluralità e differenza.
L’età del primo approccio con un device tecnologico, sia esso ad esempio uno smartphone o un tablet, si fa sempre più bassa. Con quali conseguenze, personali e sociali?
Se lo sguardo si orienta in una sola direzione, quella più vicina al proprio naso, e la mano si abitua a ricevere una risposta immediata ai propri comandi, ne emerge un pensiero e un modo di agire che fanno riferimento a quella modalità di interazione che potremmo definire autoreferenziale. Importante, nella prima infanzia così come in ogni tempo della vita, avere esperienze di natura differente ed esplorare le infinite possibilità dello sguardo, della mano, e di tutto il sistema corpo che è il nostro primo dispositivo comunicativo-relazionale da abilitare alla interazione con il mondo e alle sempre differenti estensioni, meccaniche elettroniche o digitali, di cui ci dotiamo per rispondere alla necessità di sentire e farci sentire.
Nella tua lunga esperienza di docente, quali sono i cambiamenti che hai notato nei giovani, nei loro comportamenti, nel loro approccio con la società?
La mia esperienza mi parla di grandi fragilità, di individualismi, di difficoltà di andare e stare nella dimensione più profonda della conoscenza (quindi anche dello studio come strumento e metodologia per ‘fare conoscenza’ e produrre pensiero). Trovo contraddittorio che si sia così poco abituati alle domande, alle oscillazioni del pensiero, alle posture mobili. Vedo una ingenua ricerca di verità spicciole e forse anche una distanza con quelli delle altre generazioni. Leggo tutto questo come sete di relazioni e fame di punti di riferimento, quindi credo ancora di più nella funzione sociale ed educativa dell’Università come luogo che può riconquistare una funzione strategica per chi decide di dedicarsi allo studio come strada per crescere e per formarsi ad un pensiero critico.
Quale è il nuovo ruolo di famiglia, scuola e reti sociali nell’era della perenne connessione al mondo virtuale dei social?
Credo sia una questione di paradigma. Nell’ipermodernità che chiamo turbocapitalista l’individualità emerge come ideologia totalizzante per la quale famiglia scuola e reti sociali – pur nella loro continua riconfigurazione – fanno da rumore di fondo. Mentre in una contemporaneità dove emerge l’ibridazione natura-cultura come nuova alleanza e forza per l’umanità e i suoi legami sociali, mi sembra di scorgere una società che si dà ancora un ruolo attivo e si chiede quale forma darsi e che nome dare a quello che sarà della famiglia, della scuola e delle cosiddette reti sociali come condizione umana e quindi come spazio politico del vivere.