Lo scrittore Giacomo Papi: “Siamo tutti complici di questa grande industria della disattenzione sul web”

Lo scrittore Papi: “Siamo tutti complici di questa grande industria della disattenzione sul web”

Cambiamento climatico, social media, giovani e opportunità, sono tutte trame dello stesso tessuto sociale, quello di cui oggi siamo protagonisti. Ne abbiamo parlato con Giacomo Papi, giornalista e scrittore che racconta spaccati della società contemporanea. Tra i suoi lavori Il censimento dei radical chic (2019) e Happydemia (2020) editi dalla Feltrinelli, e Cose spiegate bene. A proposito di libri (2021), edito da Iperborea.

 Abbiamo questa tendenza ad agire sempre in emergenza. Penso alla pandemia, all’ambiente. Di crisi climatica si parla sempre dopo un’alluvione, un’ondata di caldo e altri fenomeni meteorologici estremi. Ne è un’ulteriore drammatica testimonianza la frana nell’isola di Ischia. Come può evolversi la narrazione del fenomeno per farne comprendere la reale portata?

Vale anche per il fenomeno migratorio. Ma un’emergenza è tale se è un fatto eccezionale, se è un fatto normale non è più un’emergenza. La verità è che la narrazione emergenziale fa comodo a tutti. Alla politica, che non si trova costretta a fare interventi di lungo periodo, poco popolari e che pagano poco in termini elettorali. E che non deve rispondere delle sue responsabilità di lunga durata. Ai media che devono rispondere alla legge dell’attenzione, che poi è una legge antropologica: l’emergenza attira di più. E ai cittadini perché è tranquillizzante. Se i morti non ci sono, ci si abitua: il fatto che si vada incontro a temporali, nubifragi ed eventi meteorologici estremi comincia ad essere accettato dalla collettività. Questo mostra il grande senso di adattamento che gli esseri umani hanno, che è anche un modo di sconfiggere la paura, ed è una delle ragioni per cui poi non ci si allarma più di tanto. Il clima in particolare è davvero difficile da raccontare, perché richiede competenze scientifiche che quasi nessuno ha. L’unica cosa sensata ed etica – anche se non decisiva –  che i giornalisti possono fare è parlarne e informare nel modo più serio possibile.

Nei tuoi romanzi parli molto di società. Penso, per esempio, al fenomeno degli “urlatori del web”. Secondo te come i social network stanno modificando l’interazione tra le persone?

Abbiamo più rapporti personali di quanti ne avessimo una volta. Un essere umano cent’anni fa conosceva mille persone nell’arco della sua vita, oggi ne conosce quindicimila. A fronte di questa moltiplicazione delle conoscenze, a volte c’è il rischio che il livello si abbassi. Quello che mi sembra stia succedendo con i social è da un lato che le informazioni siano molte di più e le persone siano più informate di quanto non fossero prima (non pensiamo che prima tutti sapessero e che tutti i giornalisti fossero seri), dall’altro che data la nostra scarsa capacità di attenzione vincano i contenuti semplificati. Lo vediamo anche con i tweet: se scriviamo qualcosa di violento, che punta il dito contro qualcuno, viene visualizzato di più che se scriviamo qualcosa di riflessivo. Non c’è un colpevole in questo, fa parte della natura umana. È come quando vedi un incidente mentre sei in macchina e rallenti per guardare. Io vedo anche intellettuali che, senza nessuna verifica dei fatti, dopo un minuto hanno già condannato, puntato il dito, solo sulla base di voci. E intanto quel giorno faranno tantissimi like. L’attenzione ormai è una moneta. Il problema è che in questo modo lo spazio pubblico, lo spazio della democrazia diventa spazio pubblicitario, in cui tutti cercano attenzione, e questo è pericoloso perché superficiale. Gli intellettuali che funzionano di più sono, infatti, quelli che hanno più pelo sullo stomaco nello stare sulla notizia del giorno indicando un colpevole. Però non bisogna mai dimenticarsi che il pubblico collabora attivamente a questa grande industria della disattenzione. Quello che si può fare, per quanto possibile, è cercare di non cedere a questa semplificazione, sia nel dare notizie che nel leggerle.

Linciaggi mediatici, insulti dietro uno schermo, intolleranza alla diversità. Stiamo diventando degli odiatori seriali?

Indicare un colpevole, un diverso, un avversario, un nemico ha il primo effetto di presentarci come innocenti. E quindi è un atteggiamento che paga. Il bullismo è proprio la forma in cui molta della politica si attua. Pensiamo a Beppe Grillo, è il più grande bullo della storia: sfotte gli altri e in questo modo crea intorno a sé altri bulli che ridono e si sentono dalla sua parte. A questo si aggiunge che i social permettono di non rischiare, alzando la soglia del “coraggio” nell’usare la propria aggressività. Non dobbiamo però dimenticare che insieme a tutto questo c’è anche tantissimo di buono che una volta non c’era: relazioni, cose da imparare, cose belle da leggere. È uno strumento, bisogna capire come usarlo.

È decisamente un periodaccio per i “giovani delle crisi”: tra scarsità di lavoro, crisi economiche, pandemia e cambiamento climatico. Adesso anche la guerra. Ma i giovani di oggi sono mammoni oppure li descrivono così?

I giovani di oggi sono il capro espiatorio di tutto quello che succede di male nella società. Gli adulti usano i giovani per parlare di sé, trasferendo su di loro i propri difetti: “stanno sempre attaccati al telefonino, non hanno voglia di lavorare, non studiano, sono bulli”. Dopodiché, abbiamo vissuto un’epoca di crisi e di contrazione delle risorse. E in un Paese dove demograficamente i vecchi sono più dei giovani, contano di più politicamente. Quindi i giovani hanno ragione di essere arrabbiati. C’è però anche una narrazione vittimista che fornisce un alibi. Io ho la sensazione che tutto dipenda dalla speranza: siamo una società che ha smesso di sperare di migliorare la propria condizione ma, al contrario, ha paura di peggiorarla. Questo crea un senso di frustrazione e di pessimismo. Si rischia di ingenerare un atteggiamento vittimista che non fa bene a nessuno, perché porta all’inazione.

In uno dei tuoi romanzi racconti una realtà (distopica?) dove c’è un “Ministero dell’Ignoranza” ed è in atto un processo di semplificazione della lingua italiana, per andare incontro al grado di istruzione della popolazione, sempre più ridotto. Secondo te sta avvenendo un progressivo allontanamento dalla cultura?

Devo fare l’avvocato del diavolo. Non si è mai letto tanto come oggi, non ci sono mai stati tanti libri e tante occasioni di incontri culturali, non ci sono mai state così tante persone che si nutrono di cultura come oggi. C’è sempre questa idea che i tempi passati siano migliori, in realtà fino a cinquant’anni fa gli italiani erano analfabeti. C’è stato un momento in cui, a partire dal 2018,  l’ignoranza è stata vista come un sinonimo di sincerità e la cultura come un segno di inganno. Oggi è già diverso. Io penso che Meloni sia molto diversa da Salvini. Lei intende affermare una cultura – contraria – di destra, non vuole negare la cultura, come si è fatto in precedenza. In ogni caso quella di avvicinarci alla conoscenza rimane sempre una battaglia, perché la cultura serve ad avere idee e immaginare il mondo.

 

di Martina Bortolotti