Appena poche ore fa è stato rinnovato il contratto della sanità pubblica, che riguarda circa 545 mila operatori sanitari. Un traguardo che rappresenta un tassello importante in un percorso di miglioramento del Servizio Sanitario Nazionale, che non sta vivendo tempi facili. Tra carenza di infermieri, fuga di medici, ospedali al collasso e un dibattito sempre più stringente sul regionalismo differenziato, è assolutamente necessario prevedere ulteriori interventi. Abbiamo chiesto a Michele Vannini, Segretario nazionale Fp Cgil Sanità e uno dei firmatari del nuovo contratto, come questo passo del contratto può contribuire a migliorare lo stato della sanità pubblica, nonché di mettere a fuoco le altre priorità da affrontare.
Perché era importante rinnovare il contratto?
Dovevamo finire il lavoro che avevamo cominciato con il contratto precedente. Ci eravamo assunti degli impegni con le lavoratrici e i lavoratori, in particolare quello di valorizzare la loro professionalità e di dargli una prospettiva di carriera. E il contratto che abbiamo firmato rispetta questo impegno e va esattamente nella direzione che ci eravamo prefissi.
Quali sono le principali novità?
Oltre alla valorizzazione dei professionisti, c’è una revisione interessante delle indennità. Ma soprattutto, è un contratto che introduce novità importanti sul tema dei diritti: ci sono molti articoli che riguardano la vita quotidiana dei lavoratori e che garantiscono loro migliori condizioni, più di quanto fosse stato fatto finora.
Per esempio? Quali novità sono state introdotte?
Ce ne sono tantissime. Per esempio, una di quelle che riguarda chi lavora su turni è l’obbligo da parte dell’azienda sanitaria di esporre entro il 20 del mese i turni del mese successivo. Può sembrare banale ma finora gli operatori non potevano organizzare la propria vita privata se non all’ultimo momento.
Quali sono i prossimi passi per rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale?
Noi abbiamo fatto una manifestazione sabato scorso a Roma, con lo slogan: “Sanità, se non la curi non ti cura!”, che ha lanciato una serie di parole d’ordine importanti. La priorità assoluta in questo momento è innalzare le risorse a disposizione del Servizio Sanitario Nazionale, che ci servono in primo luogo per assumere persone, a partire dai precari che già lavorano nella sanità pubblica. E poi il Fondo Sanitario Nazionale serve anche perché questo è un contratto molto innovativo, molto importante, che dà grandi prospettive e possibilità, ma abbiamo bisogno delle risorse per poterlo applicare nei posti di lavoro.
Pronto soccorso congestionati, reparti e corsie sovraffollati sono, purtroppo, situazioni sempre più frequenti. Un modello di medicina territoriale può essere una soluzione verso un sistema più efficiente?
La medicina territoriale deve funzionare. Il problema è ancora una volta quello delle risorse. A luglio è uscito il decreto ministeriale n.77 che è molto importante perché disegna per la prima volta una serie di standard di assistenza territoriale. È un decreto che ha luci ed ombre perché non tutto quello che c’è dentro ci piace, ma sicuramente è un’innovazione importante. Il problema è che quel decreto definisce come vengono spese le risorse del Pnrr, che però possono essere utilizzate per costruire strutture, per innovare le tecnologie dei macchinari ma non per assumere personale. Il rischio è che un’operazione importante come questa da una parte continui a generare differenze territoriali che già esistono e che abbiamo visto esplodere con la pandemia. Da questo punto di vista, chi parla di regionalismo differenziato dovrebbe riflettere perché quello è un punto di crisi che è emerso con grande evidenza. Dall’altra parte rischiamo che, se le aziende sanitarie non hanno la possibilità di assumere il personale, i servizi saranno dati alla gestione dei privati. E questo non va bene.
di Martina Bortolotti