La migrazione dei popoli è un fenomeno oramai strutturale, non solo perché viviamo nell’era della globalizzazione, che non conosce confini, ma anche per le condizioni climatiche, geopolitiche, economiche e sociali che interessano alcune aree del pianeta. Eppure l’immigrazione continua ad essere vista – e quindi gestita – come un’emergenza. Ma quali sono i risultati di una politica che interviene sull’urgenza del presente e non pianifica interventi lungimiranti di gestione del sistema integrazione? Ne abbiamo parlato con Andrea Bellardinelli, Responsabile del Programma Italia di Emergency.
Qual è stata la situazione dei flussi migratori in questi anni caratterizzati prima dalla pandemia – e i relativi lockdown – e poi dalla guerra?
Nell’ultimo anno c’è stato un aumento dei flussi. Le ragioni sono sempre le stesse. Ci sono le cause dirette, come la guerra o il tentativo di scappare da situazioni di violenza, come è appena accaduto agli ucraini, e ci sono cause indirette, come la povertà. Noi continuiamo a distinguere il migrante economico dal migrante normale. Queste categorizzazioni mi dispiacciono molto. La guerra è fatta con le bombe ma anche con la miseria assoluta. Quand’è che ho diritto di scappare? Qual è il limite per un essere umano? Bisognerebbe parlare di libertà di movimento, che è un diritto fondamentale.
Il sistema di accoglienza ha funzionato allo stesso modo? Sono stati garantiti gli stessi diritti?
In generale, il problema più grande del sistema di accoglienza è la farraginosità burocratica. Dovremmo snellire l’iter, le procedure, le varie tipologie di permessi, ecc. Per quanto riguarda il primo periodo della pandemia, invece, uno dei problemi è stato che molti dei migranti arrivati in Italia volevano proseguire il proprio viaggio nel resto d’Europa e invece, a causa del virus, sono rimasti bloccati e non sono riusciti a ripartire.
Secondo voi, qual è la strada da percorrere per garantire un più efficace sistema di inclusione e integrazione nella nostra società?
Dobbiamo dare loro una possibilità lavorativa e formativa. Ci sono delle professioni per cui il nostro Paese è in affanno, come nel settore dell’agricoltura, dell’assistenza, della ristorazione e del turismo. Bisogna cercare di creare filiere di lavoro etiche. Tendiamo sempre a vedere l’immigrazione come un fenomeno negativo, perché la vulnerabilità e la povertà ci danno fastidio, sono un problema per noi. Invece può essere un’opportunità, perché siamo una società anziana, che ha bisogno di linfa e di tessuto nuovo. L’importante è non estremizzare le disuguaglianze, perché questo porta a gesti sconsiderati. Non c’è mai stata una politica lungimirante che abbia pensato che se queste persone sono integrate e hanno un lavoro dignitoso con il quale sostenere la propria famiglia, senza essere sfruttate, non hanno ragione di delinquere. Se creassimo dei luoghi virtuosi, di ritrovo, di partecipazione, siamo sicuri che avremmo gli stessi problemi? Abbiamo esperienze di accoglienza anche importanti e positive. E allora perché non prendere quei modelli che hanno funzionato? Penso che possiamo e dobbiamo dare qualcosa in più. La questione va affrontata con le idee, non con le ideologie. L’Italia dovrebbe assestarsi come un Paese che crea valore, non che distrugge i valori della Costituzione. La migrazione sarà il futuro, che ci piaccia o no. Non puoi impedire ad un essere umano di cercare la propria dignità, piuttosto preferisce morire. E infatti tutti quelli che arrivano sono estremamente consapevoli dei rischi, sanno che possono morire e scelgono comunque di partire. E noi pensiamo di fermare questa cosa? Bisognerebbe spendere meno soldi per muri e fili spinati e investirne di più per centri di aggregazione giovanile, per politiche formative, per centri per il lavoro. Non è un problema di risorse, è un problema di visione politica.
di Martina Bortolotti