Torniamo a ragionare seriamente su come rendere la Pubblica Amministrazione consona ai bisogni della società del futuro

Spunti di riflessione a margine di un recente libro sulla PA

di Umberto Carabelli

 

1) Una considerazione che, in questi ultimi tempi, sta risuonando alta e chiara in interviste e dichiarazioni di politici ed esperti – interrogati da incalzanti giornalisti alla ricerca di risposte ai problemi posti dalle difficoltà economiche e sociali della contemporaneità – è quella secondo cui non ci potrà essere nel nostro futuro uno sviluppo solido e stabile se non si procede ad una definitiva, profonda riforma della Pubblica Amministrazione (PA), che ne renda l’attività realmente efficace ed efficiente, oltre che ispirata, com’è scontato, a criteri di economicità (le famose ‘tre e’).

Nihil novi sub sole verrebbe da dire, se non fosse che ci sono un paio elementi di novità rispetto alla tradizionale impostazione, conseguenziale a quelle dichiarazioni, volta a ricercare le ragioni delle disfunzionalità che impediscono alla PA di assolvere in modo del tutto soddisfacente alle proprie funzioni pubbliche – inclusa la fornitura dei servizi ai cittadini/utenti – nelle tante inefficienze derivanti dal cattivo funzionamento, e dai conseguenti mancati risultati, delle riforme del passato. A partire da quelle riguardanti la struttura territoriale della macchina amministrativa (le riforme delle Regioni e delle Autonomie locali), fino ad arrivare a quelle, più recenti, della privatizzazione e della modernizzazione manageriale dell’organizzazione delle varie amministrazioni. Inefficienze rispetto alle quali si è ritenuto di poter trovare rimedio in vario modo, ad esempio, con (a dir poco) rischiosi rafforzamenti dei processi di articolazione territoriale già esistenti (come la spinta verso l’autonomia differenziata), talaltra con paradossali ritorni al passato (ripubblicizzazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti della PA). Per non dire che spesso si ipotizza la sufficienza di semplici ritocchi normativi, talvolta, ahimè, di segno totalmente opposto (ad es. più o meno poteri, più o meno responsabilità ai dirigenti).

Quello che appare nuovo nel dibattito odierno è anzitutto la contingenza storica nella quale ci troviamo ad operare, nella quale, per la prima volta, ci viene data l’occasione di disporre di enormi risorse finanziarie per mettere mano a quanto non si è fatto (o si è fatto male) nei 77 anni che ci separano dalla nascita della nostra Repubblica, a condizione di utilizzarle bene e subito. Mi riferisco, ovviamente, al PNRR, che l’Unione europea ci ha messo a disposizione a tal fine, ma imponendoci metodi di lavoro e di spesa estremamente accelerati; cosa del tutto inusuale per un Paese, come l’Italia, che, da sempre, ha tempi lunghissimi di realizzazione dei progetti pubblici, nonché un utilizzo insufficiente delle risorse europee, a causa di storiche ragioni di inefficienza dell’apparato burocratico, su cui si tornerà più avanti. Una contingenza storica, insomma, che impone alle forze politiche ed alle amministrazioni, volenti o nolenti, di rivedere, bene e subito, i meccanismi decisionali, gestionali e di controllo in atto, con tutti i rischi che questo comporta (basti pensare alle polemiche di questi ultime settimane relative alla soppressione dei controlli in itinere della Corte dei conti).

Oltre a questo, un secondo aspetto di novità che comincia ad affiorare nel dibattito odierno, a trent’anni dall’avvio del processo di privatizzazione con il D. lgs. n. 29/1993 – ed è quello che più interessa evidenziare in questa nota – è costituito dallo spostamento del focus su un profilo che, fino ad oggi, è stato assai negletto nel ragionamento politico, coltivato con pazienza certosina soltanto da pochi studiosi del lavoro alle dipendenze della PA.

A questo riguardo, è ormai ampiamente diffusa l’idea – proveniente da note teorie dell’organizzazione – che, per elevare la qualità dell’attività amministrativa e dei servizi pubblici, occorra riconoscere la massima rilevanza a coloro che lavorano nella PA, da considerare come capitale umano, o come risorse umane. Dove i termini capitale e risorsa spingono, però, a ben vedere, a collocare lo sguardo solo dal lato dell’amministrazione, delineando l’azione organizzativa e gestionale, pur se ispirata a criteri di valorizzazione del sapere, della professionalità e delle competenze dei lavoratori, in funzione di un interesse ‘datoriale’ che potremmo definire pur sempre come neo-autoritario, di ispirazione utilitaristico/economicistica, secondo una visione che, dunque, non appare, in termini di esercizio dei poteri, molto difforme da quella più tradizionale. Una visione, insomma, che potremmo riconoscere come permeata ancora da una tendenza a considerare organizzazione e gestione ‘discendenti’ dall’alto (di chi comanda), verso il basso (di chi deve comunque soggiacere passivamente all’ordine).

Orbene, a me sembra che, nel ragionamento politico e scientifico, cominci ad affiorare, talvolta quasi inconsapevolmente, un’inversione concettuale di prospettiva, e quindi una visione che potremmo dire ‘ascendente’, dai lavoratori verso dirigenti (e in genere coloro che svolgono funzioni direttive) e, perché no, in ultima ratio, verso gli stessi politici. L’idea, cioè, secondo cui, il rilievo da assegnare ai lavoratori nei processi di riforma andrebbe concepito in termini più radicali, collocando questi ultimi al centro dei processi organizzativi e gestionali e considerandoli – non (tanto) come capitale o risorse, ma piuttosto – come persone che, con il loro sapere, con la loro intelligenza e capacità, con le loro competenze, nonché con la loro dedizione al lavoro e la loro disponibilità a farsi carico dell’interesse generale di cui fanno parte, sono in grado di ‘fare la vera differenza’, se adeguatamente stimolate. Ciò nel senso pregnante che questi soggetti, formalmente e sostanzialmente riconosciuti, in ragione dei requisiti soggettivi posseduti, come elementi essenziali per l’Amministrazione di appartenenza, e di conseguenza adeguatamente coinvolti e valorizzati in modo partecipativo per queste loro caratteristiche, vengano messi in grado di trainare le loro amministrazioni di appartenenza fuori dalle secche della scarsezza, o comunque inadeguatezza, delle ricordate ‘tre e’.

Orbene, a me sembra che una siffatta ‘valorizzazione della persona’ possa (anzi debba) oggi essere ricondotta ad un concetto di benessere lavorativo, da ritenere incluso in quello di benessere organizzativo sancito dallo stesso legislatore (cfr. art. 7, co. 1, D. lgs. n. 165/2001). Un concetto, questo di benessere lavorativo, che – in aggiunta ai tradizionali profili individualistici di tipo egoistico (soddisfazione di interessi psicofisici, economici etc.) e a quelli ambientali e relazionali, che siamo avvezzi a ricondurre complessivamente all’espressione ‘benessere organizzativo’ – può ben essere identificato con i contenuti richiamati, i quali dovrebbero tutti insieme permeare l’agire organizzativo e gestionale, nei modi su cui mi intratterrò più avanti. E questo importante arricchimento di significato, derivante dall’inversione prospettica indicata, dovrebbe, a mio avviso, avere rilievo non soltanto sul piano descrittivo, ma pure sul piano interpretativo giuridico, a fronte di espressioni legislative in cui si parla, appunto, di benessere dei dipendenti pubblici.

Centralità della persona e benessere dei lavoratori sono d’altronde da lungo tempo al cuore della trattazione sindacale, non solo per la loro evidente attinenza con le tradizionali funzioni di rappresentanza e tutela dei lavoratori che le organizzazioni sindacali esercitano da sempre fuori e dentro i luoghi di lavoro, ma anche per il radicato convincimento di queste ultime secondo cui, specificamente nel settore pubblico, soltanto coloro che vivono bene la loro esperienza lavorativa, in quanto qualitativamente valorizzati nella loro attività, sviluppano un sincero convincimento di assolvere (anche) alla mission di servire l’interesse pubblico (come attestato senza la minima ombra di incertezza dalle vicende correlate alla pandemia da Covid, e dai sacrifici disinteressati che hanno dimostrato di sapere e volere sopportare tanti lavoratori, non solo del settore sanitario), e possono propagare benefici effetti sull’attività delle loro amministrazioni, costruendo relazioni positive con i cittadini destinatari di funzioni e servizi e soddisfacendone appieno le aspettative.

Su questo aspetto, mi sia consentito rinviare agli ultimi due Osservatori di lavoro pubblico della rivista Giuridica del Lavoro e della previdenza sociale, curati, come sempre, da Gabriella Nicosia, Paola Saracini e Carla Spinelli, dove si è evidenziato con precisione il rafforzamento di queste tendenze nel periodo più recente anche sul fronte della contrattazione collettiva.

 

2) Ricordando uno slogan opportunamente utilizzato come titolo del Forum PA del 2023, (‘Ripartiamo dalle persone’), potremmo dire che, in realtà, non si tratta di partire ex novo da categorie dell’analisi organizzativa inusitate, ma piuttosto di ri-partire dal soggetto lavoratore, valorizzandolo in una prospettiva quasi ribaltata rispetto a quella che ha dominato negli anni più recenti. Insomma, come detto più sopra, fino ad ora il lavoratore è stato considerato, al massimo, come parte di un progetto di efficientamento organizzativo ancora di tipo neo-autoritario, di ispirazione utilitaristico/economicistica. Ovvero, se si preferisce, come componente di una strategia volta ad utilizzarlo come fattore produttivo che, più o meno passivamente, è, appunto, destinato, insieme a tutti gli altri fattori, a produrre valore, pur se indirizzato al soddisfacimento dell’interesse generale. Nella nuova prospettiva, invece, le caratteristiche del soggetto lavoratore di cui si è detto dovrebbero essere prese in considerazione ed esaltate identificandolo primariamente come persona titolare di requisiti soggettivi culturali, professionali e di competenza (ma anche socializzanti), che, attraverso il suo diretto coinvolgimento partecipativo, possono e devono diventare un elemento primario e costitutivo delle scelte organizzative.

Per chiarire meglio questa ‘inversione di prospettiva’, desidero precisare che mi riferisco pur sempre ai requisiti soggettivi – messi in evidenza anche dalle teorie incentrate sul concetto di capitale umano, o di risorse umane – riguardanti il sapere, il saper (come) fare e finanche il sapere (come) far fare (questo vale in particolare per i dirigenti e per i funzionari con responsabilità direttive). Solo che tali requisiti dovrebbero – in una nuova concezione di fondamento, se si vuole, finanche filosofico e ideologico, che esalta l’identità lavorativa del dipendente pubblico in termini partecipativi alla definizione e soddisfazione dell’interesse pubblico – essere considerati come elementi essenziali da cui partire nell’assunzione delle decisioni organizzative e gestionali, attraverso il coinvolgimento dello stesso lavoratore che ne è portatore. Ciò in quanto, chiamando quest’ultimo a contribuire alle predette decisioni, gli si consente di godere di una soddisfazione piena (non si dovrebbe temere di parlare, in prospettiva, addirittura di ‘felicità’) nello svolgere l’attività lavorativa alla quale si è volontariamente ‘dedicato’ (e non soltanto ‘obbligato’), e quindi anche di interagire meglio con gli altri lavoratori (collaborando con i quali viene esaltato ulteriormente il significato della propria attività), nonché di relazionarsi con il mondo esterno, meglio soddisfacendo i destinatari delle funzioni e servizi dell’amministrazione di appartenenza attraverso il compimento proprio dovere (non commutativo ed utilitaristico ma etico-professionale).

Si tratta di un mutamento di prospettiva che, a mio avviso, consentirebbe di raggiungere risultati decisamente più soddisfacenti in termini di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa, e che, a ben vedere, dovrebbe includere anche la tanto propagandata essenzialità del merito come principio valutativo, posto che è fin troppo evidente, nelle pieghe del discorso che si è sviluppato su di esso, soprattutto nel periodo più recente, il contenuto essenzialmente datoriale/utilitaristico che si intende attribuirgli.

 

3) Ragionando un po’ più accuratamente su questi tratti di novità rilevabili, anche se in modo ancora embrionale, in questa difficile fase, in cui si sta, appunto, ripensando ai modi di affrontare una (ulteriore) riforma della PA – in verità sarà opportuno parlare, d’ora in poi, di Pubbliche Amministrazioni (PPAA), vista la estrema varietà di situazioni che, come da più parti segnalato, tipizzano le varie componenti della grande famiglia – è possibile rendersi conto di quanto le considerazioni fin qui svolte abbiano diretta rilevanza sui progetti di ammodernamento, reingegnerizzazione e riorganizzazione che dovrebbero essere messi in campo, in particolare su tre aspetti determinanti, strettamente connessi tra loro (e che anzi, a ben vedere, rappresentano tre facce del medesimo problema), sui quali intendo soffermarmi brevemente in queste note. Mi riferisco: a) alla sburocratizzazione dell’organizzazione delle attività amministrative tramite la costruzione di una cultura e di un agire fondato su obiettivi e processi; b) al consolidamento ed al sostegno di una managerialità dirigenziale, guardata soprattutto sotto il profilo di capacità di valorizzare (individualmente e collettivamente) i lavoratori, non come meri ‘produttori’, bensì nella loro qualità di soggetti che possiedono degli specifici requisiti soggettivi di cultura, professionalità e competenza, e come tali risultano portatori di un valore decisivo per le loro amministrazioni, se ben utilizzato; c) alla migliore puntualizzazione delle procedure valutative dei lavoratori da parte dei dirigenti, da utilizzare e sviluppare come strumento non solo di controllo, ma anche di correzione e indirizzo della loro attività.

Il convincimento della necessità di muovere in questa direzione – forse non del tutto nuova concettualmente, ma sicuramente innovativa dal punto di vista interpretativo e operativo – in una riforma delle PPAA che, come ho detto nel titolo di queste note, possa risultare consona ai bisogni della società del futuro, mi accompagna da tempo nella mia riflessione scientifica. Ma si è rafforzato ulteriormente in questi giorni a seguito di un incontro, che per ventura mi è capitato di fare, con un recentissimo libro di Massimo Balducci  (Un gatto che si morde la coda, ovvero le riforma della Pubblica Amministrazione, Ed. Guerini e Associati, 2023, Milano), un amico e collega con il quale ho condiviso una bella esperienza didattica svolta, per qualche anno, presso l’allora Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA), poi divenuta Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA). Entrambi convinti, insieme a qualche altro collega docente (tra cui merita di essere ricordato soprattutto Sandro Mameli), della necessità di immettere, nei consolidati e autorevoli, ma alquanto ‘arcaici’, programmi della Scuola – destinati in primis ai dirigenti, ma anche a funzionari delle tante Amministrazioni – la linfa di una dinamica e nuova visione manageriale attenta ai bisogni di ammodernamento delle PPAA, che innervasse progressivamente, fino a sostituire quasi in toto, i tradizionali percorsi di tipo parauniversitario che caratterizzavano all’epoca l’attività formativa offerta da quell’istituzione.

Non è stata dunque una sorpresa ritrovare nel libro di Balducci quello stesso afflato che ci aveva spinto, sin dall’origine dell’esperienza presso la Scuola, a superare il formalismo di corsi volti a reiterare conoscenze già assorbite dai partecipanti durante la carriera universitaria, e ad incentrare la formazione proprio su contenuti segnati, sia pure con differenze significative, e con intuizioni didattiche al tempo ancora embrionali, dai profili che ho indicato più sopra.

Nelle pagine che seguono mi soffermerò, dunque, brevemente su quei tre aspetti, eventualmente svolgendo, in alcuni punti e nei limiti del possibile, una sorta di dialogo/confronto a distanza con l’Autore.

 

  • a) Come ho accennato in apertura, ‘sburocratizzazione’ è una delle parole d’ordine pronunciata con regolarità da politici e studiosi al fine di identificare la cura necessaria per guarire uno dei mali più gravi che affliggono le nostre PPAA. E però, di fronte a questa affermazione occorre intendersi. La burocrazia non è di per sé una brutta cosa: l’insegnamento weberiano ci ha, anzi, mostrato come essa abbia rappresentato l’elemento essenziale nella costruzione dell’ossatura dello Stato moderno. Solo che, come bene ricorda Balducci nelle prime pagine del suo libro, la struttura burocratica dell’amministrazione, fondata sulla gerarchia dei processi decisionali e gestionali, è stata utile a garantire la legalità di uno Stato in formazione e che, poi, si andava consolidando, mentre non appare più adeguata dal momento in cui lo Stato assume funzioni più sofisticate, specie se a valenza economica, facendosi carico del compito di fornire anche servizi ai cittadini.

    Per fronteggiare questa mutazione epocale, le risposte delle teorie organizzative sono state varie, ma in estrema sintesi si può dire che la soluzione più ‘avanzata’ proposta nell’epoca più recente è stata quella di passare da una organizzazione verticale gerarchica, fondata su procedure di tipo legalistico-amministrativo fissate rigorosamente, tendenzialmente una tantum – per il perseguimento, tramite decisioni assunte da poteri autoritari, di interessi pubblici predeterminati – ad una di tipo orizzontale, fondata su obiettivi e processi (per il loro perseguimento) variabili nel tempo, definiti a più livelli, ma collegati funzionalmente tra loro, con forti autonomie decisionali diffuse in modo reticolare (grazie anche, si potrebbe aggiungere oggi, alla sempre più intensa digitalizzazione dei programmi e del lavoro).

    Tali obiettivi e processi, peraltro non sono facili da definire, ed anzi, come ci spiega Balducci, in mancanza di chiarezza di idee, soprattutto questi ultimi rischiano di essere fraintesi, e identificati ancora con passaggi di tipo legalistico-burocratico, votando al fallimento ogni tentativo di moderna riorganizzazione. Laddove, invece, la sfida della modernizzazione sta proprio nella reingegnerizzazione orizzontale dall’amministrazione, in cui la centralità è attribuita non più ad un formalismo procedurale o a principi astratti e rigidi (che, aggiungerei, si rivelano solitamente di autoconservazione castale), bensì nella definizione, come appena detto, di una organizzazione ed una gestione fondata, appunto, su obiettivi e relativi processi affidati ai soggetti che operano nell’amministrazione stessa (pur nel rispetto, ovviamente delle regole finalizzate alla tutela di interessi generali). Ed è qui che la lettura dell’Autore richiama le teorie del capitale umano, o delle risorse umane, ma significativamente arricchite con un fiducioso riconoscimento del ruolo essenziale che, nel disegno innovativo proposto, può essere assolto dai lavoratori, grazie ai loro requisiti soggettivi (sapere, saper fare e come fare).

    Ciò detto, e confermata l’ampia condivisione di questa lettura, a me pare – quale giuslavorista convinto dell’apporto essenziale che coloro che lavorano (e le organizzazioni sindacali che li rappresentano: ma su questo tornerò in chiusura) possono dare, anche in termini propositivi, alla qualità delle funzioni e servizi assicurati dalle PPAA – che essa possa essere specificata ed arricchita mediante l’innesto di quella lettura fondata sull’inversione prospettica, come sopra argomentata. Più precisamente, mediante il riconoscimento che oggi è diventato, più che opportuno, necessario, assegnare un rilievo centrale alle persone che lavorano nelle amministrazioni, attraverso la loro partecipazione, a titolo individuale e collettivo, nella definizione di obiettivi e processi. Questo nel senso che tutti coloro che compongono l’attività delle PPAA dovrebbero essere coinvolti, in modo non formale ma realmente partecipativo, in tale definizione, in modo da essere valorizzati in ragione dei requisiti soggettivi posseduti e, conseguentemente, di vedersi garantito quel benessere lavorativo cui hanno diritto.

    Si tratta di una prospettiva – sulla quale si tornerà più ampiamente tra breve – che interessa, ovviamente, a tutto tondo il mondo del lavoro pubblico, fino a coinvolgere gli stessi dirigenti, per i quali opera peraltro una interessante bidirezionalità, che ci introduce al secondo punto che intendo considerare.

 

  • b) Il secondo aspetto su cui desidero concentrare l’attenzione, che è in realtà strettamente correlato con il primo, rappresentandone la prosecuzione logico-concettuale, è quello che sopra ho definito del ‘consolidamento e sostegno di una moderna managerialità dirigenziale’.

    Devo dire che anche sotto questo profilo ho ritrovato un’ampia sintonia con Massimo Balducci. Mi è bastato leggere un breve ma essenziale paragrafo del libro, dal titolo Il dirigente questo sconosciuto, per ritrovare in toto le sconsolate constatazioni che abbiamo tante volte effettuato nel corso della nostra esperienza presso la SNA, e che, a mia volta, ho maturato nel corso della mia attività didattica e scientifica. Il dirigente – osserva l’Autore – “nella nostra cultura amministrativa è concepito come colui che meglio conosce la materia su cui l’amministrazione deve operare”; ma questa concezione, utile al tempo delle origini ottocentesche del nostro modello amministrativo, “cozza contro il fatto che oggi si devono gestire grandi numeri, tali per cui il dirigente deve essere esperto soprattutto nella programmazione del lavoro”; ma anche “contro il fatto che le decisioni che l’amministrazione contemporanea è chiamata a prendere richiedono competenze multiformi e diverse, tante e complesse che nessun essere umano è in grado di possederle tutte adeguatamente”. Insomma, “oggi si rende necessario un dirigente che sappia coordinare personale dotato di competenze diverse”. E’ da questa errata concezione del ruolo dirigenziale, segnala Balducci, che scaturiscono gravi, e ormai insostenibili, conseguenze sul piano organizzativo e gestionale, che si traducono, ancora una volta in inefficienza ed inefficacia dell’azione amministrativa.

    In effetti, a causa di tale concezione, da un lato, è venuta a mancare una adeguata capacità di definizione degli obiettivi che, partendo dalla (inevitabilmente) generica individuazione e specificazione da parte dei titolari del potere politico, dovrebbero essere sviluppati a cascata dai vari livelli dirigenziali, utilizzando, a tal fine, le varie competenze presenti nella specifica amministrazione. Dall’altro, nella fase organizzativa e gestionale, è venuta altresì a mancare una capacità di delega reale ed effettiva di compiti e funzioni da parte del dirigente al personale che collabora con lui, spinta fino alla assunzione formale di responsabilità (che l’Autore identifica pure con l’elemento formale della firma).

Come ho detto, anche su questa questione vi è grande sintonia con Balducci. E peraltro, ricordando a quanto argomentato sub a), io penso che un passaggio ulteriore che si dovrebbe compiere, per arricchire questa lettura, è costituito dall’innesto su di essa della inversione di prospettiva sopra proposta, consistente nella massima valorizzazione dei lavoratori da parte di chi ha poteri e responsabilità direttivi e, dunque, nella attuazione di quel benessere lavorativo, nel senso che ho cercato di chiarire più sopra. A mio avviso, infatti, tanto nella definizione degli obiettivi, quanto nella organizzazione e gestione dei processi destinati al loro perseguimento, ciò che deve essere sviluppato da chi esercita funzioni direttive, come contenuto stesso delle competenze manageriali che devono essere da lui possedute, è la capacità di apertura nei confronti dei lavoratori, al fine di promuovere ed ottenere un loro coinvolgimento partecipato, che ne utilizzi appieno i requisiti soggettivi posseduti, vera ricchezza abbondante e preziosa, che al momento solo in minima parte è introiettata all’interno dell’azione amministrativa.

In questo modo, come accennato, verrebbe dato pieno risalto alla centralità che dovrebbe assumere, nelle strategie manageriali, il benessere lavorativo delle persone che operano nell’amministrazione; ed i cui effetti positivi sarebbero altresì destinati a riverberarsi nei confronti dello stesso dirigente/manager, come benessere lavorativo ‘di ritorno’ (è questa la bidirezionalità cui ho accennato in precedenza) rispetto ai suoi personali requisiti soggettivi (tra i quali si aggiunge, come detto in apertura, anche il saper (come) far fare). Senza trascurare il vantaggio ambientale e relazionale di trovarsi a governare un sistema (o operare in un clima, se si preferisce) di relazioni interpersonali divenute più fluide ed armoniche.

Ciò posto, quanto di tutto questo può aver rilievo anche in relazione all’ultimo aspetto di cui desidero interessarmi in chiusura di queste note, cioè la valutazione? Tanto, direi, molto più di quanto si possa pensare. Ed anzi, anche rispetto ad esso ritengo si ritrovi un analogo, interessante, profilo di bidirezionalità.

 

  • c) Una delle parti forse più complesse (almeno per chi, come me, non maneggia gli strumenti delle tecniche organizzative) del lavoro di Balducci è rappresentata dai paragrafi dedicati a Controlli, valutazione e performance. In essi dopo aver sottolineato che, nel tempo, “la tematica del ‘controllo’ si evolve e sfuma nella tematica della valutazione, in particolare della valutazione della performance”, si sottolinea come le esigenze valutative si possono raggruppare secondo le due metodologie del ‘controllo manageriale’ e dell’auditing. Constatato quindi che l’esperienza italiana ha fatto ricorso ad entrambi (ricordo al riguardo che l’art. 3, co. 2 e 4 prevedono rispettivamente che «Ogni amministrazione pubblica è tenuta a misurare ed a valutare la performance con riferimento all’amministrazione nel suo complesso, alle unità organizzative o aree di responsabilità in cui si articola e ai singoli dipendenti», e che «Le amministrazioni pubbliche adottano metodi e strumenti idonei a misurare, valutare e premiare la performance individuale e quella organizzativa», mentre l’art. 6, co. 2, prevede che la funzione di misurazione e valutazione delle performance sia svolta, oltre che, sul piano strategico generale, dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, dagli Organismi indipendenti di valutazione e dai dirigenti di ciascuna amministrazione), l’autore si concentra soprattutto sulla valutazione della performance organizzativa, di struttura – che evidentemente, nella sua ricerca, lo interessa di più, in una logica generale di sistema – dedicando solo occasionalmente qualche considerazione rispetto alla funzione valutativa svolta dai dirigenti.

Sul primo aspetto, a cui Balducci dedica riflessioni molto accurate ed esemplificazioni assai analitiche, non sono in grado di formulare osservazioni di merito, trattandosi di un campo di studi a me estraneo. Desidero invece dedicare, a completamento del discorso che ho cercato di sviluppare, qualche riflessione al profilo della valutazione dei lavoratori operata dai dirigenti, che interessa più da vicino il mondo dei dipendenti pubblici, in quanto incide direttamente sulla loro vita lavorativa.

Anche a questo riguardo, io ritengo che – premessa l’attuazione delle innovazioni relative a due aspetti trattati nei punti a) e b) – sia opportuno, anzi necessario, porre in essere in futuro una migliore puntualizzazione delle procedure valutative, volta a introiettare in esse gli aspetti che ho fin qui definito della valorizzazione della persona del lavoratore.

Al momento, in realtà, siffatte procedure sono poste in essere dalla dirigenza in modo solitamente assai passivo ed automatico, secondo metodologie indicate dagli OIV e caratterizzate da schemi automatici impersonali e precostituiti, con richieste di informazioni standardizzate e spesso scarsamente rispecchianti le reali attività svolte dai dipendenti (cioè delle implicazioni relative ai requisiti individuali posseduti ed effettivamente impiegati nell’attività svolta). Se ciò è vero, a me pare che, anche in questo caso, l’inserzione all’interno di esse di momenti di condivisione partecipata, nel senso che ho più volte evocato, sarebbe in grado di far compiere un salto di qualità rispetto ad una funzione che, altrimenti, rischia di essere percepita come inutile, o addirittura come astratta, unilaterale, e dunque potenzialmente vessatoria.

Sul punto, è noto come già da molto tempo si sia evidenziato, negli studi di sociologia dell’organizzazione e di psicologia del lavoro, come il controllo e la valutazione meriterebbero di essere concepiti in una prospettiva e con modalità collaborative, di confronto e dialogo con l’interessato passivo. In tal senso si potrebbero altresì effettuare correzioni in corso d’opera o addirittura decidere mutamenti di indirizzo dell’attività del o dei dipendenti coinvolti, finalizzati al miglioramento delle performance. Sarebbe un bene se, dal piano teorico degli studi, questi mutamenti dei metodi di valutazione fossero assorbiti nell’attività manageriale dei dirigenti, in modo da assicurare ancora una volta, in una prospettiva differente ma integrata con le precedenti, una valorizzazione della persona del lavoratore e dei suoi requisiti individuali, onde attuarne il benessere lavorativo.

Mi permetto di segnalare ancora come, in base a quanto detto nel punto b) in relazione alla c.d. bidirezionalità, un discorso del tutto analogo può essere svolto anche rispetto a questo differente aspetto, invero strettamente collegato al precedente.

 

4) Concludendo, resta da affrontare un aspetto che non può non essere preso in considerazione ove, in correlazione con quanto si qui detto, si voglia aprire una finestra sui problemi delle relazioni sindacali del settore pubblico, e specificamente al ruolo che il sindacato può svolgere rispetto ai temi trattati nei paragrafi precedenti.

Ritengo sia abbastanza chiaro che tutti i passaggi descritti nei punti a), b) e c) sono stati trattati in un’ottica individualistica, a limite scontando, all’occorrenza, un coinvolgimento plurisoggettivo dei lavoratori. Completamente diversa è la questione di come possa muoversi il sindacato, portatore dell’interesse collettivo, rispetto alle nuove dinamiche che dovrebbero interessare i dipendenti.

Dico subito che, nella mia personale visione del ruolo che il sindacato è chiamato a svolgere in siffatta prospettiva, non si tratta (sol)tanto di assolvere alla pur importante esigenza di ‘non lasciare i lavoratori da soli’ ad affrontare un cambiamento così significativo dei modelli organizzativi e gestionali. Si tratta piuttosto di utilizzare il proprio potere collettivo al fine di assecondare e controllare l’introduzione ed il funzionamento di quelle innovazioni di cui ho parlato.

Al riguardo, pare chiaro che siamo nell’ambito di aspetti rientranti della c.d. micro-organizzazione, e quindi soggetti alla limitazione dell’art. 5, co. 2 D. lgs. n. 165/2001, secondo il quale «le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro… e in particolare la direzione e l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici, sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, fatte salve la sola informazione ai sindacati ovvero le ulteriori forme di partecipazione, ove previsti nei contratti di cui all’articolo 9»; principio ribadito dall’art. 40, co. 1, il quale sancisce che «sono escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell’articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, commi 2, 16 e 17».

Se quindi appare precluso ai contratti collettivi di disciplinare specificamente e analiticamente i suddetti profili del coinvolgimento partecipativo dei lavoratori, ad essi è invece consentito di fissare regole che, andando oltre la mera informazione, definiscano meccanismi partecipativi collettivi, mediante i quali il sindacato stesso sia in grado di assicurarsi che effettivamente i dirigenti, nell’esercizio dei loro poteri nei confronti di coloro che lavorano alle loro dirette dipendenze, assicurino il perseguimento del loro benessere lavorativo, con riferimento ai tre profili di cui alle lett. a) b) e c).

La strada è certo in salita, ma non è affatto escluso che, nelle varie amministrazioni, possa essere in qualche modo ‘asfaltata’ da alcuni dirigenti che, da illuminati innovatori (nonché pragmaticamente consapevoli dei vantaggi che ne deriverebbero) si impegnino ad attuare le proposte qui avanzate in modo unilaterale, riconoscendo che, interpretando in un modo esteso il concetto, legislativamente previsto, di benessere organizzativo (cioè, appunto, inclusivo del benessere lavorativo), possono dar vita a nuove e più avanzate forme di managerialità, in grado di fornire migliori risultati sul piano dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa. Ove ciò avvenisse, sarebbe probabilmente più facile per il sindacato spingere (anche tramite l’impiego delle predette clausole partecipative) per una estensione generalizzata di siffatte best practices, rafforzando così, in modo più formale, una interpretazione del dato legale corrispondente a quella qui propugnata.